La Russia ignora il suo isolamento

martedì 18 marzo 2014


Per Mosca il referendum che si è tenuto il 16 marzo in Crimea è legittimo. I risultati parlano da soli: il 96,77% dei votanti ha votato sì. I votanti dovrebbero essere l’81% degli aventi diritto al voto in Crimea. Dunque: considerando che mettendo assieme russi e ucraini di lingua russa si arriva a malapena al 58% della popolazione (bambini compresi), il Cremlino e il parlamento autonomo della Crimea ci devono spiegare come mai la maggioranza dei tatari (12% della popolazione) e degli ucraini non di lingua ucraina, oltre alla quasi totalità di russi e russofoni, abbiano votato per l’annessione alla Federazione Russa. E questo dopo appena due settimane di attesa, senza campagna elettorale, con tutto il territorio controllato da militari e paramilitari russi. Misteri del consenso. E rimarranno tali, perché gli osservatori dell’Osce non sono graditi in territorio della Crimea. Gli ultimi che hanno provato ad entrarvi sono stati scacciati in malo modo da irregolari russi, che hanno sparato colpi d’avvertimento in aria. Per ora, quella che abbiamo sotto gli occhi, è solo la “verità” decisa dal Cremlino: un plebiscito pressoché unanime per l’annessione.

Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, una risoluzione che dichiarava illegale questo referendum-farsa è stata bloccata sabato con il veto della sola Russia. Persino la Cina si è astenuta. L’ambasciatore di Francia all’Onu, Gérard Araud, ha smontato pezzo per pezzo ogni argomentazione russa a favore dell’annessione della penisola nel Mar Nero. “La violazione del diritto internazionale, a questo punto, è così plateale che provo quasi pietà nel vedere la diplomazia russa così formalista, così puntigliosa nel suo rispetto delle forme e nella sua invocazione dei testi, dibattersi per cercare di dare un fondamento giuridico a un colpo di forza. Un giorno si agita una presunta lettera di un capo di Stato in fuga (l’ex presidente ucraino Yanukovych, ndr), diffusa in una versione neppure firmata, lettera sparita tanto in fretta così come era comparsa; il giorno dopo si ricorda il Kosovo e infine, sicuramente dopo una ricerca febbrile negli archivi, si riesuma una questione di decolonizzazione del 1976, la questione di Mayotte. A questo punto non si può fare a meno di far notare a Mosca che non vuol vedere che, proprio in quel caso, la Russia aveva preso una posizione opposta rispetto a quella di oggi. Un parallelo che prova quanto la Russia si sbagli in almeno uno dei due casi, nel 1976 o nel 2014. Deve scegliere”. La violazione del diritto è tale, nota Araud che è come se la Russia stesse “opponendo il suo potere di veto alla Carta delle Nazioni Unite”.

La Russia, sbugiardata pubblicamente all’Onu, isolata, ora è colpita anche da sanzioni. Proprio a proposito di costi, sia gli Usa che l’Ue hanno imposto il congelamento dei beni e il ritiro dei visti a un totale di 32 personalità russe e loro complici ucraini. Nella “black list” americana, 11 personalità in tutto, da oggi sono entrati il vicepremier russo Dmitri Rogozin, la presidente del Senato Valentina Matvijenko e due collaboratori stretti di Vladimir Putin, quali Vladislav Surkov e Sergej Glazijev. Fra i complici ucraini dei russi, nella lista nera americana rientra lo stesso Viktor Yanukovych (tuttora in esilio volontario a Rostov, in Russia) e l’autoproclamato premier della Crimea, Sergey Aksyonov. Le sanzioni europee, invece, colpiscono più persone, ma meno influenti: 7 politici della Crimea, 10 deputati della Duma e del Senato russi e tre ufficiali delle forze armate, fra cui l’ammiraglio della Flotta del Mar Nero, protagonista dell’invasione della Crimea. Secondo quanto ha dichiarato la presidenza di turno (Lituania), la prima tornata di sanzioni durerà sei mesi. Poi si vedrà.

Per ora si tratta di misure restrittive alquanto leggere. Il quotidiano statunitense Washington Post suggeriva di puntare più in alto, di colpire Sechin (“aspirapolvere di Stato”, colui che ha nazionalizzato e tuttora controlla gran parte dell’industria russa) e Miller, il presidente di Gazprom. Insomma, anche senza muovere le truppe, ma limitandosi a una risposta economica, il tandem Usa-Ue si dimostra alquanto riluttante ad affrontare frontalmente una Russia in piena espansione. Parigi, Londra e Washington, più che altro, contano sull’effetto indiretto dell’isolamento internazionale. Sperano che sia Putin a “capire il messaggio” e cambiare condotta. Ma è plausibile?

L’esperienza di queste settimane, così come gli ultimi 22 anni di storia post- sovietica, dimostrano che non lo sia. La Russia, dopo la dissoluzione dell’Urss, ha sempre contato su una serie di avamposti (basi militari e minoranze etniche russe) disseminate in tutte le repubbliche ex sovietiche. Ha appoggiato la secessione della Transnistria dalla Moldavia, della Abcasia e dell’Ossezia meridionale dalla Georgia, del Nagorno Kharabakh dall’Azerbaigian. Ovunque vi sia un governo non-allineato ai desiderata di Mosca, scoppia una guerra civile che si conclude con una secessione e la nascita di uno Stato riconosciuto da nessuno se non dalla stessa Russia (e poi si dice che gli imperialisti sono gli Stati Uniti…). Questi Stati diventano terre dimenticate da Dio e dall’uomo, dominate da mafie e dai peggiori oligarchi russi. E restano lì, come altrettanti buchi neri sulle carte geografiche, per decenni, dal momento che nessuno se ne occupa più. La Crimea farà la stessa fine? Probabilmente sì, se non si trova alcun modo per far tornare Putin sui suoi passi.

Certo, questa volta la Russia ha agito fuori da ogni logica di guerra civile, in tempo di pace, senza attendere alcuna “provocazione militare” da parte ucraina e sotto gli occhi attoniti del mondo civile e il plauso dei populisti de noantri che hanno finalmente trovato il loro “uomo forte” da venerare. Mosca agisce nel nome dell’“autodeterminazione dei popoli”, a favore della minoranza russa in Ucraina, una scusa a cui crede solo la Lega Nord, pregiudizialmente pro-russa. Mosca vuol dimenticare e far dimenticare di aver schiacciato con la forza delle armi le sue minoranze musulmane in Cecenia, Daghestan e Inguscezia e dopo aver sventolato per vent’anni il principio di “integrità territoriale”. Valido solo per sé, evidentemente.


di Stefano Magni