venerdì 21 febbraio 2014
L’Ucraina ha compiuto un altro grande passo verso il baratro della guerra civile. La giornata di mercoledì sera si era conclusa con il licenziamento del capo di stato maggiore dell’esercito, il generale Volodymyr Zamana e con l’accordo di una tregua con i manifestanti… che non ha retto più di 12 ore.
Due episodi che rivelavano la fragile posizione del presidente Yanukovich. In primo luogo, l’esercito iniziava solo il mercoledì pomeriggio ad essere coinvolto in una guerriglia urbana che, fino a quel momento, era combattuta da manifestanti contro forze dell’ordine. Solo nel primo pomeriggio il ministero della Difesa aveva annunciato l’invio delle prime unità di paracadutisti nella capitale, mentre i servizi di sicurezza emanavano lo stato d’assedio (“campagna anti-terrorismo” su scala nazionale). E meno di due ore dopo il presidente ha rimosso il comandante in capo delle forze armate. Cosa vuol dire? Che evidentemente non lo riteneva all’altezza del compito, oppure si è sentito decisamente rispondere con un “no” all’idea di far intervenire l’esercito per sedare la rivolta. La verità su questa decisione la sapremo solo dopo l’apertura degli archivi, ma è difficile che la vicenda sia andata troppo diversamente dalle due ipotesi di cui sopra.
Solo considerando di aver perso il contatto con l’esercito, che è costituito soprattutto da giovani (che solidarizzerebbero naturalmente con i ribelli), è sotto-equipaggiato e piuttosto demoralizzato, si può capire come Yanukovich, nel bel mezzo dello scontro, abbia deciso di proclamare una tregua con l’opposizione. Ma, peggio ancora, proprio mentre iniziava il vertice dei ministri degli Esteri europei per decidere il da farsi e prima di ricevere la delegazione dell’Ue (Francia, Germania e Polonia), Yanukovich si è trovato a dover affrontare un secondo scoppio di guerriglia urbana. E questa volta, era ancora peggiore della prima notte di sangue. I manifestanti, infatti, hanno riconquistato la Piazza dell’Indipendenza, ormai ribattezzata Maidan (la piazza) e la situazione è andata completamente fuori controllo. Tanto che le sedi del parlamento e del governo sono state abbandonate. La conta dei morti, nel pomeriggio di ieri, era arrivata a 36 (ufficiali) o 100 (dichiarati dai manifestanti). Con la capitale in aperta sommossa, Yanukovich si è trovato nella poco invidiabile posizione di trattare con gli europei da una posizione di estrema debolezza. E di dover subire tutto il peso della pressione politica del Cremlino, che finora lo ha sempre sostenuto, ma ora inizia a ritenerlo un emerito incapace. Prima ancora dell’inizio dei colloqui a Kiev, il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius aveva già annunciato sanzioni europee contro “personalità” ucraine ritenute responsabili della violenza contro i civili: i loro fondi all’estero saranno congelati e non avranno più il visto di ingresso nei Paesi membri dell’Ue. Gli Usa, da questo punto di vista, hanno giocato d’anticipo, annunciando possibili sanzioni sin dalla mattinata di ieri. A tutto ciò si aggiunge la Nato, di cui l’esercito ucraino è ufficialmente un partner (anche se la procedura di accesso è, di fatto, congelata dal 2008): “Invito fortemente il governo ucraino ad astenersi da ulteriore violenza. Se i militari interverranno contro l’opposizione, i legami con la Nato saranno seriamente danneggiati”, ha detto durante la notte fra mercoledì 19 e giovedì 20 il segretario generale dell’Allenaza Atlantica, Anders Fogh Rasmussen. Dall’altra parte, arrivano le minacce della Russia. Il premier Dmitri Medvedev è stato molto chiaro: “Bisogna che i nostri partner abbiano autorità, che il potere in Ucraina sia legittimo ed efficace e che non venga calpestato come uno zerbino”. È una minaccia nemmeno troppo velata a Ue e Nato, ma intanto ha anche dato dello “zerbino” a Yanukovich.
Ai tempi dell'Urss, una situazione del genere si sarebbe risolta con un ordine del Cremlino seguito da una rapida marcia di carri armati sulla capitale ribelle. Kiev, oggi, avrebbe fatto la fine di Budapest, Praga, Kabul, Baku e Vilnius. Ma il modo sovietico di trattare l’“estero vicino” è molto cambiato, anche per la Russia, negli ultimi 23 anni. Mosca sa di avere carta bianca per condurre operazioni militari entro i propri confini, come ha fatto già due volte in Cecenia, che è sempre una regione della Federazione Russa. Ma con l’estero, anche se “vicino” e dentro la propria “sfera di influenza”, la storia cambia. Putin ha già rischiato grosso invadendo la Georgia nel 2008, ma in quel caso aveva un casus belli “legittimo” (lo scontro fra i georgiani e gli osseti, con questi ultimi sostenuti dalle truppe di interposizione russe), il Paese era piccolo e lontano dall’Europa centrale.
In Ucraina, invece, un intervento militare russo è improponibile: nessun casus belli, un Paese grande con 46 milioni di abitanti e situato nel cuore dell’Europa. Mosca deve escogitare altri metodi per evitare che Yanukovich cada, l’Ucraina esca dalla propria sfera di influenza e si riavvicini all’Occidente. Potrebbe seguire l’esempio di Milosevic in Jugoslavia e puntare sul separatismo della Crimea e delle regioni orientali, dove la popolazione è a maggioranza russofona e su cui esercita già una grande influenza. Oppure puntare a una sostituzione al vertice, sacrificando Yanukovich.
In ogni caso, Putin qualcosa escogiterà. Usa, Nato e Ue, mai come in questo periodo, devono tenere la guardia alzata.
di Stefano Magni