L’Italia e le strane guerre di pace

giovedì 6 febbraio 2014


Facciamo una pausa nella continua polemica sull’acquisto degli F-35 e vediamo dove e come sono impiegati i militari italiani. È vero che, da un punto di vista prettamente economico, la singola voce di spesa del budget della Difesa è sempre l’acquisto di nuovi armamenti (fra cui il famigerato F-35, prodotto anche in Italia), ma da un punto di vista politico è decisamente più importante il dispiegamento di militari all’estero, che quest’anno ci costeranno circa 1 miliardo di euro. Fino a quest’anno le missioni fuori dal nostro territorio sono state 33, in ben 25 Paesi sparsi in tutti i continenti.

Sono molto note le missioni in Afghanistan (assieme alla forza Isaf, a guida Nato), in Libano (missione Leonte) e in Kosovo (Kfor). Non tutti sanno che, in Palestina, a Hebron e altre zone calde, ci sono i nostri Carabinieri. Sono disarmati, muniti solo di macchina fotografica, ma sono presenti quali forze di monitoraggio. Ancora meno sanno che ci sono soldati italiani anche nella penisola del Sinai, che è nota a tutti per le vacanze sul Mar Rosso, ma che dal 1948 è una zona calda del mondo e dopo la rivoluzione egiziana (2011) sta diventando un vero inferno in terra dominato da trafficanti di organi e armi. Il 2014 è l’ultimo anno del nostro impegno militare in Afghanistan, non per decisione del Governo Letta, ma per obbedire alla strategia scelta dal presidente Barack Obama tre anni fa. Nel Paese dell’Asia meridionale rimarranno dalle 600 alle 800 unità italiane per addestrare le forze locali.

Tutti gli altri tornano a casa. Se però gli Stati Uniti non raggiungeranno un accordo con il presidente afgano Hamid Karzai sulle regole da applicare alle forze multinazionali addestratrici, scatterà la cosiddetta “opzione zero” e tutti i nostri soldati saranno ritirati dall’Afghanistan. L’impegno militare italiano, molto costoso in termini di vite umane, considerando che si tratta di una missione di pace (53 caduti) si conclude, purtroppo, con un quasi scacco militare: un Paese ancora fortemente destabilizzato, un governo debole, una guerriglia talebana ancora molto aggressiva e capace di dettare le proprie condizioni politiche al governo di Kabul. Non è colpa nostra, i nostri uomini tornano a testa alta dopo aver fatto il loro dovere al meglio, d’accordo.

Ma non è molto edificante l’aver partecipato ad una guerra di cui i libri di storia parleranno come di una “sconfitta” o quantomeno di un “pantano” inconcludente. Se l’intervento in Afghanistan era comunque necessario, prioritario per l’appartenenza del nostro Paese alla Nato, scattato in seguito all’attacco al cuore dell’America dell’11 settembre, non si capisce ancora il significato della presenza della nostra forza di interposizione in Libano, una delle nostre missioni più impegnative, complesse e costose. Il risultato raggiunto è buono solo sulla carta: non è più scoppiata una guerra fra Hezbollah e Israele. Ma siamo sicuri che sia grazie alla presenza della missione Onu Unifil2 che le ostilità si sono interrotte? Nel corso della precedente missione, Hezbollah non si è fatto scrupoli a lanciare razzi contro gli israeliani, anche coinvolgendo i caschi blu dell’Onu nel tiro incrociato.

Inoltre, dal 2006 (anno della Seconda Guerra Libanese) ad oggi, gli arsenali di Hezbollah si sono ricostituiti come ai tempi del conflitto. E se il movimento armato non si è dotato di missili a lungo raggio siriani, contrabbandati da Assad nel pieno della guerra civile, è solo perché questi sono stati colpiti dagli aerei israeliani. Non certo grazie ai nostri Caschi Blu, che non possono disarmare le milizie. Paradossalmente, invece, il fianco Sud dell’Italia, il più pericoloso in assoluto, risulta quasi scoperto. Per la caotica Libia del dopoguerra, dove sono stati rapiti anche due lavoratori italiani, ci sono solo due missioni: una quarantina di addestratori presenti sul territorio e una missione tecnica della Guardia di Finanza per la manutenzione delle motovedette che avevamo ceduto a Gheddafi (e che il dittatore aveva usato contro i nostri pescherecci, nel 2010).

Quest’anno partirà anche un’altra missione addestrativa per i libici, questa volta sul suolo italiano. In Libia, insomma, abbiamo poco o nulla, dove invece dovremmo avere il grosso delle nostre truppe, considerando il livello di pericolo terrorismo di quel territorio così vicino. Quanto alla rotta dei disperati, dalla Libia a Lampedusa, la nostra Marina Militare sta svolgendo il suo compito di pattugliamento e salvataggio in alto mare. I clandestini vengono portati in territorio italiano dopo essere stati tratti in salvo. In pratica abbiamo messo in piedi una missione per sostituire gli scafisti con le più potenti navi della nostra Marina. Pare surreale, ma è così.

Insomma, si può trarre la conclusione che, per scelta politica, i nostri soldati, a prescindere dal loro ottimo addestramento, siano impiegati in gran numero dove non servono e assenti dove servirebbero. Ma il peggior spot alla rovescia lo stiamo dando in India. I nostri due fucilieri di marina Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, che erano regolarmente impegnati in una missione di protezione del traffico mercantile dalla pirateria, stanno compiendo il loro secondo anno di prigionia (iniziata il 15 febbraio 2012) senza che la diplomazia italiana sappia tirarli fuori. E rischiano tuttora di essere condannati a morte. Considerando che il nostro impegno militare è soprattutto all’estero, il messaggio che si ricava da questa umiliante crisi diplomatica è per noi il peggiore possibile: fate dei nostri soldati quel che volete, noi non siamo in grado di tutelarli.


di Stefano Magni