Ucraina in tilt, bagliori di guerra

venerdì 24 gennaio 2014


L’Ucraina sta scivolando fuori controllo. Il pericolo, adesso, è quello di un intervento di forza del governo sostenuto dalla Russia. Quel conflitto civile che, con tanto buon senso, si era evitato nel 2004, all’epoca della Rivoluzione Arancione, potrebbe scoppiare ora. I morti negli scontri di piazza hanno già provocato, stando a fonti ucraine, almeno cinque morti e oltre 200 feriti. Meglio dare un’occhiata al passato (prossimo) per capire il presente. Il 29 novembre 2013, il presidente ucraino Yanukovich aveva annunciato la rinuncia all’adesione all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea.

Per buona parte degli ucraini occidentali e dei giovani di Kiev, l’Ue è ancora sinonimo di pace, democrazia, assenza di corruzione e, soprattutto, una grande opportunità di movimento per lo studio e il lavoro. Da un punto di vista ideale, l’Ue è per gli ucraini quel che la Comunità Europea rappresentava per noi negli anni ’50: una grande mano tesa dopo il disastro della dittatura e della guerra, un’occasione unica per inserirci in un grande mercato internazionale, un suggello di pace dopo due guerre mondiali. Per un giovane ucraino mediamente istruito, l’Ue rappresenta ancora tutti i valori condivisi dai suoi padri fondatori. E le brutture che si sono aggiunte dopo, fra centralizzazioni e tecnocrazie varie, sono acqua fresca rispetto alla realtà locale, fatta di grandi oligarchie economiche, miseria e assenza di prospettive di lavoro.

L’annuncio della mancata firma dell’accordo, dunque, è stato una doccia fredda per tutti. Dopo la dura repressione poliziesca della prima manifestazione di piazza, la protesta si è ulteriormente gonfiata con centinaia di migliaia di ucraini, ormai non più solo giovani, permanentemente accampati in Piazza dell’Indipendenza a Kiev. Il 18 dicembre è il giorno della seconda doccia fredda: Yanukovich firma l’accordo con la Russia, accettando un prestito di 15 miliardi di dollari e sconti sul gas. La porta è chiusa in faccia all’Ue. Ma la protesta non finisce qui. Il 24 dicembre, a mo’ di intimidazione, una giornalista molto attiva fra i manifestanti, Tatyana Chrinovol, viene picchiata selvaggiamente da ignoti, probabilmente sostenitori del presidente o agenti in borghese.

Il 12 gennaio, le forze anti-sommossa (in divisa e ben riconoscibili) riducono in fin di vita l’ex ministro (ora all’opposizione) Yuri Lutsenko. Il 16 gennaio, la Rada ucraina (il parlamento) approva una serie di leggi che riducono enormemente la libertà di manifestazione e soprattutto vietano gran parte dell’attività delle Organizzazioni Non Governative straniere, accusate di alimentare la protesta e dunque equiparate ad “agenti stranieri”, come ai tempi dell’Urss. La tensione, a questo punto, si è gonfiata per tre giorni, fino allo scoppio delle violenze del 19 gennaio. Ma l’opposizione ha tutto da perdere dalla violenza e puntualmente accusa la presenza di “agenti provocatori” governativi fra i facinorosi che hanno attaccato i poliziotti a colpi di sassi, razzi e molotov.

Dal canto suo, il presidente Yanukovich ha ora buon gioco a farsi vedere come il salvatore della quiete e ha formalmente invitato l’opposizione a tornare al dialogo, dopo il fallimento dei negoziati di dicembre. Tuttavia la situazione è ulteriormente precipitata. Le forze speciali attaccano con più vigore, fra i manifestanti si diffonde la voce che i russi siano già arrivati a dar man forte al governo. La situazione è dunque esplosiva.

Perché in un solo caso l’Ucraina si è unita in una sola causa: quando si trattava di seppellire la vecchia Urss e riavere l’indipendenza. Ma da lì in poi, è sempre rimasta divisa in due nazioni distinte e distanti: l’Est e la Crimea russofoni, ancora post-sovietici (per struttura economica, mentalità, cultura e ideologia) sono con la Russia e l’attuale governo di Kiev. La capitale e l’Ovest del Paese sono mitteleuropei. Spegnere male questo incendio, potrebbe costituire l’inizio della fine dell’unità del Paese.


di Stefano Magni