Cinema Italia-Usa, l’intervista a Monda

sabato 18 gennaio 2014


Nessuna arte più del cinema ha contribuito a plasmare il rapporto tra Italia e Stati Uniti. Il cinema è stato per la relazione tra i due Paesi un fondamentale veicolo di scambio culturale, un immaginifico strumento di descrizione storica e sociale, un fortissimo dispositivo di comunicazione e reciproca influenza. Il cinema è anche uno dei settori in cui gli Italiani d’America hanno avuto più successo. Attori e attrici, registi, sceneggiatori, costumisti, musicisti, scenografi; in qualsiasi campo dell’industria cinematografica americana, e quindi mondiale, ci sono nomi italiani di enorme carisma, notorietà e talento.

A parlarne con noi c’è uno dei massimi esperti di questo tema, nonché uno degli italiani più noti di New York: Antonio Monda insegna cinema alla New York University, organizza eventi in Italia e negli Usa, scrive per la stampa italiana ed è autore di libri di successo. È anche organizzatore di incontri privati tra personalità di prestigio e di successo che si ritrovano a casa sua per conoscersi e confrontarsi, secondo un format tanto vincente quanto semplice: che in Italia chiamiamo “salotto” ma che nulla ha a che fare con quei salotti romani così ben rappresentati dal film italiano che proprio questa settimana ha vinto i Golden Globe Awards, “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino. Incontriamo Antonio Monda in occasione di una sua conferenza - proprio a Roma - su Jfk e il cinema.

Professor Monda, le cronache dicono che il suo è uno dei salotti (anzi, per usare le sue parole, uno dei “laboratori di idee”) meglio frequentati di New York. Com’è nata quest’attività?

Sì, effettivamente io non amo molto il termine “salotto”: soprattutto da noi in Italia ha un connotato leggero, futile, mondano che è l’opposto di quello che cerco di fare. Io sono un uomo del sud dell’Italia, abituato da sempre a ricevere a casa – questa è la normale tradizione nella mia famiglia – e mi è stato insegnato che lo scambio di idee è la cosa più importante e più ricca che si possa fare. Io sono arrivato a New York senza una lira: i primi anni ho vissuto grazie al lavoro di mia moglie, che lavorava all’Ice di New York, e io facevo il super (cioè il portiere, o poco più) in un condominio. Già allora iniziammo ad invitare alcuni amici o persone che avevo appena conosciuto attraverso le interviste che facevo e che faccio per la stampa italiana, e così è nato quasi per caso: i miei ospiti, a volte anche molto famosi, si sono accorti che da me non avevano nulla da temere ma scoprivano il piacere di scambiare delle idee, oltre ovviamente al poter mangiare molto bene, perché ho la fortuna di avere una moglie che è anche un’eccellente cuoca. Quindi c’è la spensieratezza e la piacevolezza dell’incontro senza secondi fini – non ci sono fotografi o giornalisti, non si fanno affari – se non quello di incontrare e conoscere persone interessanti e scambiare le proprie opinioni: io imparo moltissimo e ogni tanto magari qualcosina la dico anch’io.

Quella della sua carriera a noi sembra davvero la realizzazione dell’American Dream: oggi insegna alla New York University…

È vero, oggi insegno al Tisch, la scuola di cinema della New York University. Pensando che trent’anni fa la cattedra che ho io era di Martin Scorsese, ovviamente per me è un onore enorme. Anche questo nasce banalmente: io ho fatto un incontro con il preside di allora, e lui apprezzò il mio lavoro decidendo così di darmi la possibilità di fare alcuni corsi come professore aggiunto. Poi ho vinto la cattedra.

Come descriverebbe il rapporto tra cinema italiano e americano?

Sono totalmente intersecati tra di loro. Si pensi a come “Paisà” di Roberto Rossellini ha influenzato Martin Scorsese: fu dopo la sua visione che lui capì che avrebbe voluto fare cinema. Si pensi a come “Easy Rider” debba molto a “Il Sorpasso” di Dino Risi; o come “Goodfellas” sia stato influenzato da “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi – a me l’ha raccontato lo stesso Scorsese. Sono solo tre esempi di quanto il grande cinema americano abbia apprezzato e sia stato influenzato dal grande cinema italiano. Viceversa, il cinema italiano da molti anni ha imparato stilemi, linguaggi e temi dal grande cinema statunitense e anche dalla cultura di questo grande Paese: in questi giorni anche “Il capitale umano” - il nuovo film di Paolo Virzì, un bravissimo nostro regista che ha fatto sempre commedie all’italiana - prende spunto da un romanzo americano. C’è moltissimo scambio, un’osmosi continua tra le due cinematografie e anche tra le due culture.

Che ruolo ha avuto il cinema nell’evoluzione della sua esperienza di appassionato cinefilo italiano in America? In questo settore si può dire che c’è un preciso punto di svolta, che è dato dall’uscita de “Il Padrino”?

Innanzitutto va detto che “Il Padrino” è un capolavoro assoluto, uno dei più grandi film della storia del cinema. Ovviamente racconta una tragedia, la vita di una famiglia criminale: la racconta romanticamente, addirittura prendendo spesso le parti della famiglia, ma rimane una vicenda criminale. Nella mia formazione hanno avuto un grande impatto i film della grande ondata che arriva subito dopo, a metà degli anni ’70, e che nasce ai margini della caduta dello studio system: quando il sistema di fare cinema all’interno delle major lascia il posto ad una nuova generazione di registi di cui fanno parte Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Steven Spielberg, Peter Bogdanovich, William Friedkin, Brian De Palma, John Milius, George Lucas e altri. Quel cinema ha segnato la rinascita hollywoodiana degli anni Settanta.

Nei riguardi degli italiani emigrati in America, c’è stato nel cinema un personaggio della portata e dell’impatto che ebbe Enrico Caruso nella musica, anche come forma di riscatto contro le discriminazioni subìte?

In effetti, no. Nel cinema il grande boom degli italoamericani è molto successivo, risale appunto agli anni Settanta: a meno che non si pensi a Frank Sinatra, che era un attore ma soprattutto un grandissimo cantante.

È vero che si fatica moltissimo a trovare nel cinema americano personaggi italiani o italoamericani che non siano “negativi”?

È abbastanza vero. Sono molto pochi i tentativi che vanno nella direzione opposta: mi vengono in mente “Marty”, il bel film di Delbert Mann con Ernest Borgnine che parla della storia d’amore di un italoamericano, un uomo bruttino che fa il macellaio; oppure “Mac” di John Turturro che parla della dignità di alcuni italoamericani che si occupano di falegnameria. Ovviamente le cose cambiano, ma certo è che per tanti, troppi anni lo stereotipo ha voluto che gli italoamericani nel cinema fossero quasi sempre mafiosi o comunque criminali.

Lei ha insegnato, diretto un film e vari documentari, scritto libri e articoli, organizzato eventi pubblici e privati: e tutto con passione, dedizione e successo. È da poco uscito il suo nuovo libro, dal titolo “La città nuda. Le mille anime di New York”. Se dovesse scegliere una di queste cose, quale sceglierebbe?

La scrittura.

Lei conosce bene Paolo Sorrentino: nel suo penultimo film “This must be the place”, prodotto negli Stati Uniti, compare anche in un piccolo cameo. Non osiamo chiederle un pronostico circa le possibilità di vittoria de “La grande bellezza” all’Oscar: ci limitiamo a fare il tifo che normalmente destiniamo alla nazionale di calcio. Intanto abbiamo portato a casa il Golden Globe Awards. Le chiediamo invece, poiché lei è nato e ha studiato a Roma, di dirci se ritiene che descriva bene una certa Roma odierna e se ha davvero qualche eco con le opere di Fellini.

Stimo molto Paolo Sorrentino e “La grande bellezza” è piaciuto molto anche a me: faccio il tifo per lui, sono felice per il successo ai Golden Globe Awards e gli auguro il meglio. Considero il suo film importante, forte e potente: ho visto di persona come grandissimi personaggi della letteratura e del cinema siano innamorati della “Grande bellezza”. D’altronde le critiche americane sono tutte entusiaste e lo giudicano meraviglioso. Credo che rappresenti con grande maestria una Roma che, ahimè, è molto decadente e che oggi esiste. Il film ha senz’altro qualcosa di felliniano, ma lo stesso Sorrentino lo ha dichiarato.


di Umberto Mucci