Negoziati di pace, a che punto siamo?

sabato 11 gennaio 2014


Nell’agenda internazionale del 2014 tra i primi dossier da portare a definizione vi è certamente quello della conclusione del negoziato di pace israelo-palestinese. Ad aprile prossimo scadranno i nove mesi previsti dalle parti per il raggiungimento di una soluzione condivisa. Si tratta, quindi, di attendere poche settimane e sapremo. In realtà, le notizie che trapelano non inducono all’ottimismo. E’ pur vero che in una fase di trattativa avanzata ciascuno degli interlocutori tende a fare la voce grossa, ad alzare il tiro delle proprie richieste per conseguire, alla fine della fiera, il miglior risultato possibile per un accordo negoziale.

Tuttavia, alcune posizioni caparbiamente sostenute dai dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese non convincono. Quanto meno restituiscono un’immagine del percorso negoziale più simile a una “tela di Penelope” che a un “working in progress” come sarebbe giusto attendersi una volta giunti a questo stadio delle trattative. Soprattutto dopo il gesto forte, compiuto dal governo israeliano, di rimettere in libertà un considerevole numero di detenuti palestinesi per reati di sangue compiuti contro la sicurezza dello Stato. Come è noto, la vicenda non è stata accettata in modo indolore dalla popolazione e dai media israeliani. La liberazione dei terroristi ha creato malessere e disperazione soprattutto in coloro che sono stati direttamente colpiti dalle azioni sanguinarie dei criminali liberati.

Abbiamo ancora negli occhi le immagini strazianti dei familiari delle vittime, riuniti fuori le mura del carcere di Ofer, che mostravano cartelli con le fotografie dei parenti massacrati sovrastate dalla scritta “noi non siamo un gesto”. La decisione del governo israeliano è giunta financo a vulnerare il delicato equilibrio tra poteri dello Stato, che è fattore portante all’interno di una democrazia rappresentativa dalle solide radici liberali. Ma Netanyahu è deciso a percorrere fino in fondo la strada della pace, non però ad ogni costo. I suoi recenti discorsi pubblici sono stati indirizzati verso un unico obiettivo: pace stabile e sicurezza per Israele in cambio del diritto palestinese a una Patria.

Alla luce della significativa disponibilità israeliana, mai così netta in passato, cos’è che ancora osta alla definitiva definizione degli accordi di pace? Ciò che, in realtà, costituisce il vero macigno piantato sulla strada della pacificazione è il pregiudizio, oserei definirlo di natura ontologica, che l’autorità Palestinese continua a coltivare contro l’idea stessa che possa esistere uno stato ebraico in quello spicchio di terra. Da questo punto di vista, tutte o quasi le articolazioni della complessa politica palestinese trovano un punto di saldatura: nessuno dei leader dell’A.N.P. si sente di dover dire ai propri concittadini che il “piccolo satana ebreo” ha diritto non solo a esistere ma ad essere riconosciuto come legittimo Stato sovrano.

Una cosa del genere viene difficile da essere raccontata a quei tanti “combattenti” che hanno immolato le proprie esistenze fisiche per colpire in tutti i modi, anche quelli più violenti e vigliacchi possibili, i nemici di sempre. In una recentissima intervista al giornale arabo pubblicato a Londra A-Sharq Al-Awsat, il capo delegazione palestinese ai negoziati di pace, Saeb Erekat, ha reso noto il contenuto di un messaggio inviato dal leader Abu Mazen al presidente americano Obama. Il contenuto della lettera non lascerebbe spazio a equivoche interpretazioni.

In primo luogo, si sostiene che mai i Palestinesi potranno accettare l’idea di uno Stato ebraico riconosciuto. In secondo luogo, non è pensabile definire la geografia di uno Stato palestinese ricalcato sui confini ante 1967 senza Gerusalemme capitale. In terzo luogo, una volta ultimato il ritiro israeliano dai territori “occupati” non potrebbe essere permessa “sul suolo palestinese, nel cielo palestinese, nelle acque palestinesi o ai valichi di frontiera palestinesi”la permanenza di un solo israeliano. In quarto luogo, l’Autorità palestinese intende imporre a Israele l’obbligo a recepire i profughi che hanno diritto “al ritorno”.

La lettera a Obama è successiva all’ultimo incontro, pare particolarmente teso, della delegazione palestinese con l’incaricato dell’amministrazione Usa alle trattive di pace, il Segretario di Stato John Kerry, avvenuto lo scorso 8 dicembre. Orbene, se a soli quattro mesi dalla scadenza del termine ultimo per la conclusione del negoziato i palestinesi continuano a mostrare siffatta intransigenza, è del tutto evidente che, verosimilmente, non si abbia da parte loro alcuna vera intenzione favorevole in ordine alla positiva conclusione delle trattative di pace. Il sospetto, che a questo punto comincia a prendere corpo, è che si sia trattata di una gigantesca operazione di comunicazione volta a gettare su Israele ogni responsanbilità per quanto in seguito possa avvenire nello sviluppo della situazione all’interno della già turbolenta area del Medioriente.

Appare chiaro che i Palestinesi stiano cercando una sponda occidentale tra le potenze del vecchio continente, magari l’hanno già trovata nella politica filopalestinese dell’alto rappresentante per gli Affari Esteri della Unione Europea, lady Catherine Ashton, la quale non ha mancato di distinguersi per una serie di improvvide prese di posizione anti-israeliane. Ma a quale scopo? Forse che stiano coltivando il mai celato disegno di trascinare nuovamente i Paesi arabi nel sostegno a una “terza intifada” la quale abbia l’obiettivo di chiudere definitivamente i conti con il nemico storico? Cosa si vorrebbe fare? Magari, attraverso “l’amica” Unione Europea, giungere a un riconoscimento di sovranità dello Stato palestinese da parte della Comunità internazionale e, contestualmente, chiedere agli organismi delle Nazioni Unite che l’A.N.P. sta gradualmente penetrando, di porre Israele in stato d’accusa per crimini contro l’umanità?

Se davvero dovesse essere questa la linea strategica scelta dalla dirigenza palestinese, e le manifestazioni di accoglienza dei detenuti liberati dalle carceri israeliane come eroi del popolo di Palestina avvalorerebbero tale sospetto, allora i dirigenti palestinesi mostrerebbero ancora una volta tutta la loro miopia politica nel non saper leggere in modo adeguato i segni del cambiamento dei tempi. Non siamo per nostra fortuna più nell’era del nazionalismo nasseriano e del panarabismo di simpatie ideologiche naziste. Molta acqua è scorsa sotto i ponti della Storia. Dei vecchi nemici che diedero vita alla guerra arabo-israeliana del 1948, l’Egitto odierno, quello governato di fatto, con mano sicura, dal generale Al -Sīsī è un partner strategico di Israele nel contrasto all’integralismo islamico sfociato nel terrorismo.

In quest’ ultimo periodo le forze di sicurezza egiziane hanno fatto un ottimo lavoro di interdizione per individuare e neutralizzare le basi logistiche, situate nel Sinai e a ridosso della frontiera israeliana, dei qaedisti e degli integralisti sostenitori di Hamas. Per quanto riguarda la Giordania esiste la concreta possibilità che il governo di Amman tema il radicamento di uno Stato palestinese a ridosso della propria frontiera occidentale, più di quanto si possa preoccupare della presenza di Israele nell’area. È di questi mesi la pressante richiesta avanzata dalle autorità di Amman al negoziatore americano di prevedere, almeno per un periodo temporaneo, comunque la presenza delle truppe dell’Idf (Israel Defense Forces) nella Valle del Giordano, onde costituire una sorta di zona –cuscinetto per garantire la sicurezza della Giordania e la stabilità di tutta la regione. Nel contempo la permanenza del proprio esercito offrirebbe analoghe garanzie di sicurezza a Israele. 

“La misura conferirebbe al Paese (Israele) – che vedrebbe la sua regione più popolata e vitale stretta in pochi chilometri fra il mare e il futuro Stato palestinese – una minimo di profondità strategica e di preallarme sul suo confine orientale”  (Times of Israel, 5.12.13). Degli altri componenti la “grande armata” che aggredì il neonato Stato d’Israele nel 1948, Siria, Iraq e Libano, sono tutte realtà alle prese con problemi interni di tale grandezza da far escludere, per il momento, un serio interesse nella vicenda israelo-palestinese. In particolare la “cauta neutralità” perseguita dalla dirigenza palestinese nelle vicende ultime della guerra civile siriana, non ha fatto guadagnare consensi alla causa palestinese da parte di Bashar Al- Assad e neppure da parte dei ribelli antigovernativi.

Inoltre, gli sviluppi ultimi del negoziato per il controllo della proliferazione nucleare in Iran ha indotto il governo saudita, altro player di primaria grandezza della politica mediorientale, a intensificare canali di dialogo con Israele in vista di un’ intesa riservata per la difesa comune dalla minaccia iraniana, intesa estensibile all’Egitto. Nella valutazione saudita e israeliana il pericolo di un’iniziativa bellica-nucleare di Teheran contro i propri nemici storici nell’area del Golfo e, in generale, nella regione mediorientale, dopo la firma dei patti di “Ginevra 2” parrebbe essere molto più vicina di quanto le potenze occidentali vogliano far credere. Riguardo ai punti della lettera di Abu Mazen a Obama, pur essendo inaccettabili allo stesso grado, uno suscita preoccupazione più degli altri. Si tratta dell’idea della deportazione di tutti i cittadini israeliani dalla West Bank, domani territorio del nascente Stato palestinese.

Vi sono in particolare alcune città della Giudea e della Samaria completamente popolate da ebrei così come esistono città in territorio israeliano nelle quali la presenza di palestinesi è largamente maggioritaria se non esclusiva. Questa particolare condizione ha suggerito un’idea alquanto singolare al ministro degli esteri israeliano, Avigdor Liberman. L’esponente politico ha proposto uno scambio territoriale con i palestinesi. Si tratterebbe di trasferire la sovranità di alune città israeliane allo Stato di Palestina, mentre alcune realtà della Cisgiordania passerebbero sotto bandiera israeliana.

In verità la proposta ha raccolto una bordata di giudizi negativi. Quella, però, che più colpisce è stata la reazione dei rappresentanti della comunità arabo-israeliana della città di Tira. Essi si sono opposti con fermezza alla proposta sostenendo che tutti loro sono soddisfatti di essere cittadini israeliani. Il dottor Mohamed Samara, parlando a nome dell’intera comunità arabo-israeliana della città ha dichiarato al Jerusalem Post: “Qui siamo felici, abbiamo tutti i diritti e viviamo bene, e non vogliamo essere sacrificati.

Noi non vogliamo ritrovarci in uno Stato palestinese, sotto un nuovo ente politico”. Se non è parlar chiaro questo. I nostri avi avrebbero detto “ hic manebimus optime”. Un fatto è esprimere solidarietà e vicinanza ai propri correligionari che combattono per avere uno Stato indipendente, altra cosa è andarci a vivere, o peggio trovarvisi catapultati da decisioni politiche di vertice. Di separazioni forzate dovute ad accordi piovuti dall’alto ne sanno qualcosa i nostri compatrioti triestini che una bella mattina del febbraio del 1947 si videro separati dai propri consanguinei per effetto di una striscia bianca tracciata a terra. Ne sanno qualcosa i cittadini di Berlino che assistettero impotenti alla costruzione del muro.

Gli arabi d’Israele sono cittadini dello Stato ebraico a tutti gli effetti ed è importante che le autorità di Gerusalemme non lo dimentichino, neanche per un momento. Dunque, il rischio di un naufragio dei negoziati è più che concreto. Cosa, allora, potrebbe fare la comunità internazionale, e cosa possiamo fare noi gente comune dell’Ovest del mondo per aiutare la positiva conclusione del negoziato? Innanzitutto bisognerebbe smetterla una buona volta di considerare la vicenda palestinese la chiave di volta per la soluzione di tutti i mali che affliggono la regione mediorientale.

Non è così ed è una bella ipocrisia far credere che tutto l’avvenire del mondo dipenda da quel negoziato. È un fronte aperto che merita di esser definito, ma resta pur sempre un fronte come tanti altri che in questo momento minacciano la stabilità globale più di quanto possano fare i palestinesi alle prese con i loro problemi di coesistenza con gli israeliani.

Sarebbe utile che l’UE, nelle sue alte rappresentanze, la smettesse di recitare la parte “dell’utile idiota” a beneficio del feticcio della sovranità territoriale palestinese affermata a tutti i costi. Sarebbe indispensabile che i burocrati di Bruxelles fossero un tantino più accorti nel vigilare sull’effettivo impiego dei cospicui fondi comunitari concessi all’Autorità Palestinese. Sarebbe molto importante che l’alleato storico d’Israele, il gigante Usa, svestisse una volta per tutte i panni dello “spettatore di un torneo di tennis a Wimbledon”, per riprendere quelli più appropriati di attore primario di politica estera, che l’era Obama sembra aver smarrito o dimenticato. Intanto è indispensabile che noi, che pure amiamo la nostra civiltà, ci si convinca una volta per tutte che è vero ciò che sosteneva il compianto Ugo La Malfa, che “la libertà dell'Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme”. Cerchiamo di non dimenticarlo, ci eviteremo guai molto seri per il futuro.


di Cristofaro Sola