martedì 19 novembre 2013
È tempo di legge di stabilità e allora ci permettiamo di offrire al presidente Letta e al ministro Saccomanni un consiglio gratuito: prevedete di appostare nel bilancio preventivo per il 2014 una corposa voce di spesa da destinare a “missioni militari all’estero”. Vi chiederete perché? Semplice. Perché tra poco ne avrete, ne avremo, un disperato bisogno. Perché si tratterà di inviare un agguerrito contingente di “pace” in territorio libico per fermare l’escalation bellica in corso. Nel quasi totale silenzio della stampa nazionale, in quello sciagurato Paese continuano, con sempre maggiore intensità, gli scontri tra opposte fazioni per il controllo del territorio.
L’ultimo episodio di violenza risale allo scorso 15 novembre. Durante una pacifica manifestazione svoltasi nella cinta urbana di Tripoli sono state colpite a morte decine di persone, e altrettante ferite. La causa degli incidenti è stata attribuita alla reazione violenta avuta dalle truppe della milizia di Misurata che presidiavano il loro quartier generale nella capitale. I manifestanti si erano recati presso la struttura per chiedere il disarmo dei miliziani nella prospettiva di avviare la ricostruzione del Paese in un clima di riconciliazione nazionale. La risposta non si è fatta attendere. Gli uomini in armi prima hanno esploso alcuni colpi in aria a scopo intimidatorio e, subito dopo, hanno aperto il fuoco ad alzo zero sulla folla, provocando il massacro. Fonti giornalistiche riferiscono dell’impiego, durante la sparatoria, anche di armi pesanti da parte dei miliziani.
Ora, si potrebbe obiettare che, da quando quei geni degli americani, con la partecipazione dei sodali europei, hanno dato vita alla bella impresa della “primavera araba”, morti, feriti e sparatorie, nei Paesi del Nord Africa e del Medioriente, sono ormai all’ordine del giorno. Perché allora allarmarsi tanto per poche persone cadute durante la manifestazione di Tripoli? Perché, spiace dirlo, ma tutte le morti non sono uguali. Ci sono quelle che pesano di più. È il caso di Tripoli, giacché quello che è accaduto rappresenta soltanto la punta dell’iceberg. Bisogna aspettarsi dell’altro, di molto peggio. Proviamo a riordinare i fatti.
La Libia da alcuni mesi ha un nuovo leader che si chiama Ali Zeidan. Il suo programma politico mira alla ripresa economica e sociale del Paese. Condizione propedeutica all’avvio della nuova fase è che le milizie che hanno partecipato alla guerra civile del 2011, siano disarmate e poste in condizioni di non interferire con il regolare andamento della vita comunitaria in Libia. È ovvio che i guerriglieri che fanno capo agli svariati clan tribali, storicamente presenti nel tessuto sociale libico, non hanno alcuna intenzione di deporre, in un colpo solo, armi e potere. Intanto, a livello politico generale, il sistema elettorale maggioritario, ha favorito il consolidamento del blocco laico dell’Alleanza insieme alla fazione locale dei Fratelli musulmani, “Giustizia e Ricostruzione”.
Nell’angolo, almeno per il momento, sono finiti i gruppi islamisti radicali e qaedisti. Lo scorso 16 luglio, il Parlamento Nazionale ha approvato la legge per la creazione di un’Assemblea costituente che ponga mano, in forma democratica, all’architettura istituzionale dello Stato. Per assicurare il successo al proprio tentativo, Zeidan ha chiesto e ottenuto l’appoggio dei maggiori leader occidentali. Tutto bene dunque? Non proprio. L’eccesso di zelo con cui Zeidan si è rivolto a Washington e a Bruxelles, non è piaciuto alla parte islamista del Parlamento che, è questo il rischio, potrebbe essere risucchiata dall’opposizione frontale degli islamisti radicali e qaedisti. D’altro canto, è opportuno ricordare che la Libia di oggi somiglia molto all’Afghanistan e alla Somalia.
Lo Stato riesce a far sentire la sua flebile presenza solo al centro, nella capitale. Per il resto del Paese è una storia completamente diversa. Il caos e l’incertezza la fanno da padroni. Per gli analisti della Farnesina gli indicatori segnalano “la perdurante fluidità del quadro di sicurezza in Libia”. Tradotto per i profani: continuano a suonarsele di santa ragione. È sufficiente scorrere l’elenco degli attentati e degli scontri a fuoco per comprendere che la situazione sia sull’orlo della catastrofe. A titolo esemplificativo serve citare la stessa fonte italiana agli Esteri per apprendere che a Bengasi e dintorni “prosegue senza soluzione di continuità la serie degli omicidi di matrice politica”.
Altro elemento di grande allarme è costituito dallo scontro aperto tra il governo centrale e la “Petroleum Facilities Guard” della Cirenaica, ex milizia separatista la quale, per rivendicare il diritto a riscuotere in proprio le royalties sul greggio estratto nell’area, ha totalmente paralizzato l’esportazione del prodotto petrolifero, unica fonte di reddito per l’economia locale. Il governo ha compiuto probabilmente un passo falso le cui ripercussioni non tarderanno a farsi sentire. Di fatto, con l’approvazione della legge sul cosiddetto isolamento politico dei dirigenti coinvolti col deposto regime del colonnello Al Qadhadhāfi, un notevole numero di funzionari d’apparato sarà, nelle prossime settimane e mesi, costretto a lasciare il proprio incarico.
Ciò provocherà una crisi per i vuoti che si verranno a creare nella catena di comando della pubblica amministrazione, a tutti i livelli. Ora, gli unici che verosimilmente potranno vantare di non aver avuto alcun legame con il precedente regime, anzi di esserne stati discriminati, sono gli appartenenti ai gruppi islamisti. Con la legge “autogol” approvata si rischia di ritrovarsi un apparato fortemente orientato in senso religioso integralista che saprà costruire dall’interno della struttura burocratica l’opposizione a una classe politica laica ancora troppo giovane per poter fronteggiare, con successo, l’avvento del radicalismo religioso.
A sfondo di tutto questo scenario restano fermi gli interessi dei clan armati che preferirebbero una frantumazione dell’autorità centrale per consolidare un diritto di governo periferico-atomistico, molto vantaggioso per i loro specifici affari finanziari e criminali. Ecco perché i morti di Tripoli sono più pesanti degli altri. E a maggior ragione lo sono per noi italiani che dalla destabilizzazione libica abbiamo tutto da perdere, o meglio, abbiamo da perdere quel poco che non abbiamo già perso a seguito della “pugnalata alla schiena” al colonnello Al Qadhadhāfi.
Sono a rischio i residui interessi che le multinazionali Eni ed Enel hanno ancora “in loco”. È a rischio la nostra frontiera costiera su cui approdano le masse di disperati. È a rischio la sicurezza interna del nostro Paese, avendo basi terroristiche attive e operative a così pochi chilometri di distanza dai confini nazionali. Il premier Letta, il 4 luglio scorso, ha ricevuto a Roma il primo ministro Zeidan.
Presumibilmente su mandato del presidente Obama, Letta ha ipotizzato un interessamento italiano alla vicenda libica con l’invio di esperti e consiglieri militari a cui affidare il compito di formare le nuove forze di polizia locale. Non è molto ma è un inizio a cui far seguire iniziative dirette a smilitarizzare l’intera area. Non è solo una questione interna alla Libia. È una questione interna italiana! Mettiamocelo bene in testa. Quello che accade laggiù lo paghiamo noi in prima persona. Quindi sarebbe salutare darsi una mossa. Ora che l’operazione di destrutturazione programmata del centrodestra, pensata e realizzata nel corso degli anni dalla più alta carica dello Stato (Sandro Bondi ha ragione da vendere) è quasi ultimata (manca solo la “comica finale” del voto sulla decadenza), sarebbe opportuno che ci si desse da fare per correre ai ripari sul fronte libico.
Portiamo giù i nostri ragazzi. Diamo loro appoggio aereo-navale con la nuova ammiraglia della flotta e facciamo pulizia radicale di assassini e terroristi prima che loro facciano del male a noi. Mi rendo conto che è dura. Del resto ci siamo cacciati da soli in questo pasticcio con gli errori compiuti nella primavera del 2011. Ora bisogna avere la forza di tirarsene fuori. Bisogna agire da uomini. Come direbbe l’onorevole Santanchè, si deve mostrare di possedere i giusti attributi. E non fare la parte in commedia dei soliti democristiani. Ha sentito bene, presidente Letta?
di Cristofaro Sola