Israele, liberare assassini porta la pace

venerdì 1 novembre 2013


Isaac Rotenberg era riuscito a sopravvivere ai nazisti. Deportato a Sobibor era riuscito a fuggire e a raggiungere la resistenza ebraiche che combatteva nelle foreste dell’Est europeo. Dopo aver corso pericoli mortali di ogni genere, dopo essere scampato al più intenso sterminio della storia, era finalmente “in salvo” in Israele, quando stava lavorando in un cantiere a Petah Tikvah, nel 1994, un anno dopo l’avvio del “processo di pace”. Proprio lì, a casa sua, è stato assassinato a colpi d’ascia da un palestinese, Hazem Kassem Shbair.

Un anziano signore in pensione, Moris Eisenstatt, nel 1994 stava leggendo un libro, seduto su una panchina di Kfar Saba, quando è stato assassinato a colpi d’ascia da un altro palestinese, militante del partito Fatah, Ibrahim Salam Ali. Israel Tenenbaum, lavoratore agricolo, di notte prestava servizio volontario (per arrotondare lo stipendio) come guardia notturna di hotel. Aveva 72 anni quando, nel 1993, l’anno di inizio del “processo di pace”, fu aggredito a colpi di spranga da un militante di Fatah, Salah Ibrahim Ahmad Mugdad. David Dadi e Haim Weizman stavano dormendo nell’appartamento di Weizman, quando due palestinesi, Abu Satta Ahmad Sa’id Aladdin e Abu Sita Talab Mahmad Ayman, hanno fatto irruzione a casa loro e li hanno assassinati entrambi. Per dimostrare ai compagni di lotta che li avevano realmente assassinati, i due palestinesi mozzarono le orecchie alle loro vittime e le portarono come trofeo e prova dell’avvenuto delitto.

Ian Sean Feinberg, 30enne, padre di tre figli, era un idealista: nel 1993, primo anno del “processo di pace”, lavorava e studiava su progetti di sviluppo economico dei territori palestinesi. Era a una riunione di lavoro a Gaza, quando Abdel Aal Sa’id Ouda Yusef lo uccise a colpi di pistola. Tutti questi uomini, cittadini israeliani che avevano solo la colpa di essere ebrei in Israele, non ritorneranno più in vita. In compenso, i loro assassini e molti altri, sono tornati in libertà.

Gli assassini di cui sopra sono infatti parte della lista dei 26 prigionieri palestinesi (definendoli così sembrerebbero quasi dei prigionieri politici, o di coscienza) scarcerati, in cambio di una vaga promessa. Neanche una promessa di pace, ma un impegno, ancora privo di garanzie, a “ricostruire fiducia”. Le vittime israeliane e i loro parenti ancora in vita non hanno diritto di parola.

L’unico ministro che si è opposto alla loro liberazione, Naftali Bennett, è accusato di essere un “fascista”. L’unica preoccupazione apparente dei media italiani pare essere la ripresa delle costruzioni di case negli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Una “provocazione” che, così alcuni dicono, sarebbe stata ottenuta come contropartita alla liberazione dei killer di Fatah. È “realpolitik”, pensa e dichiara il premier Benjamin Netanyahu. Vale la pena di liberare 26 omicidi per costruire quattro case in più? Non solo. C’è la speranza che la loro scarcerazione sia solo un primo passo di un nuovo “processo di pace”. Un po’ come quello degli anni ’90, durante il quale furono assassinate tutte le vittime dei killer di Arafat.


di Stefano Magni