Italia-Germania, Stati "uniti"

mercoledì 30 ottobre 2013


In Italia le cose proprio non vanno. Sono due anni almeno che la crisi economica continua a pesare sugli italiani, almeno sulla maggior parte di loro, in modo ormai insostenibile. Mai conosciuto, a memoria delle generazioni cresciute nel secondo dopoguerra, tanta miseria generata dalla contrazione della liquidità finanziaria delle imprese e delle famiglie. Le cause di questo malessere sono molteplici e sono di natura strutturale, quanto pure congiunturale. Sono antiche e, allo stesso tempo, recenti.

D’altro canto se l’intera economia di un Paese industrializzato precipita verticalmente, sebbene non vi siano eventi di natura apocalittica a giustificarne il repentino crollo, è chiaro che la responsabilità per il default di un sistema è da ricercare in un insieme di cause che restano complesse anche al solo indagarle. L’opinione pubblica, invece, è sempre alla scoperta di spiegazioni che tranquillizzino e che ridiano pace alle tremebonde coscienze dei suoi cittadini. Per questa ragione la stagione di caccia a immaginifici colpevoli a cui addossare l’onere di ogni sciagura è sempre aperta.

Il nostro ancestrale bisogno di sacro si alimenta di riti espiatori per i quali si ha pur bisogno di approvvigionarsi di capri sacrificali. Nella presente congiuntura, dunque, la caccia agli untori è stata relativamente facile e fruttuosa. Nel carniere fa bella mostra di sé l’idea che l’attuale disgrazia sia causata dall’Europa dell’Unione, dei burocrati e, soprattutto, della Germania. Secondo la comune vulgata, gli italiani patiscono il disagio perché lo vuole un’Europa succube dell’arroganza autoritaria della nazione tedesca, perfettamente incarnata dalla più che detestabile figura del suo Cancelliere, la signora Angela Merkel. Questa conclusione “prèt à porter” certamente facilita il prender sonno, ma non riempie la pancia. Se si vuole, accontenta le menti elementari, quelle che non necessitano di tante spiegazioni per decidere come condursi innanzi nell’esistenza. Certo però non può, e non deve, soddisfare coloro che abbiano la presunzione di poter “leggere” nella cronaca quotidiana sapendo cogliere sfumature e ragioni di fondo, legate da oscuri nessi causali.

Dire, quindi, che siamo con le “pezze al …” per colpa dei tedeschi è una sciocchezza buona per creduloni, non per spiriti raziocinanti. Tuttavia, resta innegabile il fatto che le istituzioni europee in primis e la classe dirigente tedesca hanno fatto di tutto per rendersi particolarmente odiose agli occhi della nostra opinione pubblica. Il tenore di certe dichiarazioni pubbliche da cui traspariva un’evidente difficoltà a mostrare equanimità verso gli italiani, come popolo, hanno fatto pesantemente dubitare che il sostrato di odio, nutrito da una comunità, quella tedesca, che in passato è stata più volte tradita dai repentini cambi di fronte degli italiani, non fosse del tutto evaporato. La sensazione che, attraverso il rigido controllo praticato dalle autorità comunitarie sulle nostre politiche di bilancio, fosse in atto un disegno politico criminale di annientamento programmato di un’economia nazionale, quella italiana, a vantaggio di un’altra, quella tedesca, non è solo chiacchiera da bar ma è argomento per più di un brillante economista.

Il senso di strangolamento avvertito a causa dell’intransigente strategia deflattiva attuata dalle autorità di controllo della moneta unica europea non è un’allucinazione della mente, ma una condizione percepita nella realtà. La voglia di andarsene dall’Europa, magari solo di sfuggire alla morsa della moneta unica, il desiderio di far saltare in aria il “Fiscal Compact”, il patto europeo di bilancio, per praticare una breccia nel muro di cinta della superfortezza continentale da cui sembra impossibile tentare la via di fuga, è qualcosa che sta crescendo nel cuore degli italiani prima ancora che nelle loro menti. Inoltre, ce l’abbiamo a morte con quelli di Bruxelles che hanno abbandonato l’Italia al suo destino, nella gestione dei flussi migratori clandestini.

Ci hanno lasciati soli a raccogliere cadaveri sparsi in lungo e in largo nel Canale di Sicilia. E quando possono, ci fanno pure la morale su come trattiamo gli immigrati clandestini, salvati dalle acque. Allora che si fa? Buttiamo tutto a mare? Come si dice, mandiamo tutto “in vacca”? Sfasciamo quello che in anni anche noi abbiamo contribuito a costruire? Torniamo indietro a rifare la solita italietta che sta un po’ di qua e un po’ di là? Pensiamoci un momento. Per quanto ora sia impresa ardua, non sarebbe forse opportuno compiere uno sforzo supplementare verso l’unità e l’integrazione prima che tutto scappi dalle mani trascinandoci in un futuro buio e d’incertezza immensamente maggiore di quella che stiamo vivendo nel presente? E poi, siamo proprio certi che i numeri ci diano così torto come sembrerebbe? Non è che la realtà nasconda qualcosa di cui non riusciamo ad avere percezione? In primo luogo bisogna fare chiarezza. Quindi separiamo il problema della permanenza italiana nella zona Euro rispetto a quello dei rapporti, soprattutto economici, con la Germania.

Sono due cose diverse e tali devono restare. Il principale partner commerciale dell’Italia è la Germania. Tra i due Paesi si è realizzato, nel 2012, un interscambio per un volume in Euro pari a 105 miliardi. Con un avanzo della bilancia commerciale per i tedeschi pari a 6,5 miliardi di euro. Secondo l’Istat, l’entità del nostro interscambio con la Germania, anche per il 2012, è stata superiore a quella con la Francia e con la Gran Bretagna sommate insieme. La sola economia tedesca assorbe circa il 12,5% del totale del nostro export. E la crisi di quest’ultimo periodo della nostra economia l’hanno pagata anche le imprese tedesche insieme a quelle italiane. Infatti, dai dati dell’Ufficio federale tedesco di statistica (Destastis), si rileva che tra l’anno 2011 e il 2012 vi sia stata una contrazione significativa (-9,8%) delle esportazioni tedesche verso l’Italia, mentre l’import dall’Italia ha segnato, rispetto al 2011, un aumento del 2,8%. Entrambi i Paesi sono potenze commerciali del manifatturiero e la corsa alla qualità per competere sui mercati globali è sostenuta dalla sinergia delle imprese italiane con quelle tedesche, in particolare nelle produzioni a più elevato contenuto tecnologico.

In realtà la Germania si caratterizza per una forte componente di investimenti diretti in Italia, attualmente valutati, da stime della Banca d’Italia, in 26,5 miliardi di Euro. Molto scarso, invece, si presenta il livello d’investimento di capitali nostrani nel sistema produttivo tedesco. La risorsa strategica per eccellenza dell’economia italiana: il comparto del turismo, capta annualmente 11,7 milioni di turisti tedeschi, con un trend in ascesa (fonte: Ambasciata della Repubblica Federale di Germania in Italia).

Torniamo per un momento al dato che evidenzia l’ammontare complessivo dell’interscambio commerciale. Per apprezzarne a pieno la consistenza è opportuno fare una comparazione. Per l’Italia il mercato di prospettiva più appetito è quello russo perché è in forte espansione e, soprattutto, perché si rappresenta altamente complementare al nostro. L’intera massa di scambio si basa sul trasferimento di materie energetiche dalla Russia contro prodotti della manifattura dall’Italia.

La categoria merceologica che gode di maggiore appeal è quella dell’abbigliamento, che pesa il 10,3% dell’intero export realizzato verso quello specifico mercato. Dalla Russia, invece, l’Italia compra gas e petrolio greggio. Nonostante, però, il consistente peso del controvalore economico dei prodotti importati, l’intero volume dell’interscambio si è attestato, nel 2011, a circa 27 miliardi di euro, che rappresenta meno di un quarto di quello con la Germania (110 miliardi) stimato nello stesso periodo, dove peraltro non vi è stata, ad alterare i numeri assoluti, l’incidenza delle materie energetiche. Dall’analisi dei dati si possono trarre alcune considerazioni. In primo luogo, si può asserire che la crisi economica italiana non piaccia ai produttori tedeschi visto che dalla stessa ne sono stati fortemente penalizzati in termini di cali delle vendite sul mercato nostrano.

In secondo luogo, il ricorso nel sistema dei pagamenti alla moneta unica avvantaggia i compratori italiani rispetto ai venditori tedeschi. La bilancia commerciale pende dalla parte della Germania la quale vende all’Italia più di quanto quest’ultima non fornisca al mercato d’oltralpe. Immaginate per un momento cosa accadrebbe se, una volta usciti fuori dall’Euro, dovessimo pagare quel che compriamo dai tedeschi con una moneta più debole della loro. In terzo luogo, il trend di crescita costante registrato nella politica di investimenti tedeschi nel sistema produttivo italiano, con un riguardo che si va sempre più orientando verso le piccole e medie imprese, conferma che i due Paesi non possono ignorarsi atteso il livello avanzato d’integrazione industriale registrato. In concreto, qualsiasi cosa accada la Germania è e resta il principale partner commerciale italiano e concorre in modo significativo al consolidamento della nostra ricchezza nazionale.

Per quanto riguarda il dilemma sulla permanenza dell’Italia nella zona Euro, bisogna sviluppare considerazioni di tipo più ampio. È indubbio che, anche su questa delicata questione, il rapporto con la Germania abbia un peso rilevante. Non fosse altro perché il sistema tedesco rappresenta nell’economia complessiva dell’eurozona il socio di maggioranza. Quello che grazie alla forza dei suoi numeri ha maggiore voce in capitolo. Tutto ciò è sufficiente per consentirci di affermare che la strategia dell’Eurozona la detti la Germania? A nostro sommesso avviso la risposta è più che affermativa.

Nessuno nell’Europa dell’Euro può pensare di camminare sulle proprie gambe senza fare prima i conti con quello che pensano i tedeschi. È legittimo asserire che la Germania abbia conquistato oggi con la forza dell’economia ciò che in passato anelava a prendere con le armi? Probabilmente sì. Anche se ragionare in termini di lotta per la supremazia sul mercato interno europeo è quanto meno anacronistico visto che proprio la Germania già da qualche tempo si pone sulla scena internazionale come potenza economica globale.

L’attenzione, a tratti ossessiva, prestata dalla leadership tedesca ai conti e agli andamenti economici dei partner europei dell’Eurozona, segnala una preoccupazione circa la tenuta della stabilità monetaria, la quale non può e non deve, a parere dei tedeschi, essere messa a rischio da comportamenti irresponsabili dei governi dei Paesi partner nelle scelte di finanza pubblica. Il macigno caduto sulla strada delle buone relazioni tra Germania e Italia riguarda proprio la consistenza, giudicata dai mercati finanziari eccessiva, del debito sovrano italiano.

Questa condizione di debolezza strutturale del nostro bilancio spaventa la classe dirigente tedesca, la quale ha deciso di erigere un muro invalicabile a difesa del principio che la Bce non debba divenire prestatore di ultima istanza per i Paesi dell’area Euro. Diversamente, la Banca Centrale Europea, alimentata dai Paesi più ricchi, in primis la Germania, dovrebbe accollarsi la garanzia per la solvibilità dei singoli Stati membri a pagare i loro debiti. Su questo terreno è ipotizzabile che si possa consumare la rottura del sistema della moneta unica.

Un evento del genere sarebbe da salutare come salvifico o da temere come distruttivo? Francamente non è dato di conoscere una risposta che sia effettivamente esaustiva della questione. È vero che con l’attuale leadership tedesca è tutto più difficile. La Germania attuale non è certo quella dei tempi di Adenauer. Il grande statista aveva un’idea d’Europa molto più inclusiva e solidale nella costruzione del processo d’integrazione di quella che manifestano gli attuali governanti. La Germania di Adenauer era una nazione appena uscita sconfitta da un devastante conflitto mondiale, con un immane carico di responsabilità di fronte al mondo intero. Era un Paese umiliato che si rimboccava le maniche per ricominciare a ricostruire su nuove basi. Sentiva, questa rinata realtà, di doversi confrontare con gli altri popoli europei e con loro condividere un progetto di unità per il futuro.

Con il trascorrere del tempo le cose sono cambiate. I tedeschi hanno cominciato a rispolverare le cosiddette “differenze di mentalità” che sono l’anticamera per una riclassificazione su base antropologica delle relazioni con gli altri Stati, o meglio con le comunità degli altri Stati. Da qui quell’insopportabile senso di arroganza che le leadership recenti della Germania iniettano nella tenuta dei rapporti con alcuni partner in particolare, come la Grecia e, appunto, l’Italia. In realtà, l’europeismo freddo della Merkel sembra ispirato da una strategia politica più simile a quella della Germania guglielmina del II Reich che non agli indirizzi di fondo di una moderna democrazia europea. Come abbiamo scritto altrove: “Alla cancelleria tedesca non si deve contestare il suo diritto alla leadership (europea) quanto il fatto che tale leadership debba essere esercitata a beneficio dell’intera comunità europea e non della sola parte tedesca.

Alla signora Merkel si deve contestare la scarsa ampiezza del suo respiro politico, non il fatto che respiri”. La rigidità della politica europea tedesca rischia di trasformarsi in una corda tanto tesa da spezzarsi. E, contrariamente a ciò che pensa la Merkel, un crollo dei Paesi della parte meridionale dell’Eurozona finirebbe con il provocare pesanti ripercussioni sulla stessa economia tedesca, oggi così prospera. Si concretizzerebbe, per effetto di una visione miope dell’integrazione europea, il peggiore incubo che i tedeschi hanno: vedersi trascinati in una crisi dagli incontrollabili sbalzi dell’inflazione.

Sull’altro fronte i Paesi sottoposti al maggiore stress del contenimento dei conti pubblici sanno di non poter continuare a sopravvivere dovendo rispettare tempi di performance e conseguimenti di target oggettivamente insostenibili. Tra questi Paesi c’è l’Italia la cui posizione è aggravata dal persistente clima d’instabilità politica che blocca le istituzioni pubbliche da almeno due anni, cioè dal tempo del primo “commissariamento” del governo nazionale, voluto dalla Germania.

Le spinte antieuropeiste stanno iniziando a fare capolino nei discorsi dei politici che non mostrano di possedere grandi idee e progetti chiari per l’avvenire del nostro Paese. Fondamentalmente la politica nostrana è divisa in due fazioni. Da una parte ci sono quelli che dicono un sì incondizionato all’Europa, che neanche ci provano a contrastare i diktat delle autorità centrali ispirate dalla Germania e che paventano scenari apocalittici, in caso di nostra uscita dall’Euro, per spaventare a morte i tanti piccoli risparmiatori di cui si compone la nostra società civile.

Dall’altra sono schierati i “campanilisti”, quelli del no-costi-quel-che-costi, quelli del meglio soli che male accompagnati, quelli che si ricordano dell’esistenza di uno straccio di unità nazionale, dopo averla denigrata in tutti i modi possibili, per sbandierarla contro le forze che puntano all’integrazione. In mezzo resta poco, o nulla. Dell’idea di una grande nazione europea, strutturata in forza di una concezione organica, non si riscontra traccia visibile. Di un’Europa che ritrovi il senso delle sue radici spirituali non si ha notizia.

Cionondimeno, pensiamo che sia del tutto legittimo continuare a sperare che il sano spirito di un conservatorismo rivoluzionario possa tornare a soffiare sulle nostre città e per le contrade del nostro vecchio continente. Comunque, quelle che fino ad oggi sono state considerate solo ipotesi di scuola, esercizi accademici, tra non molto avranno la possibilità di una verifica con il mondo reale. Alle viste c’è la tornata elettorale di rinnovo del Parlamento Europeo. Quella sarà l’occasione più concreta per le diverse comunità statuali di dire la propria sul futuro di quest’Europa.

Fra qualche mese si capirà finalmente in che direzione si desideri andare. E l’exploit nei sondaggi in Francia dell’eroina della destra, Marine Le Pen, è un segnale chiaro. A questo punto non resta che attendere la scadenza elettorale e, dopo, prepararsi ad agire cercando una volta tanto di pensare a sostenere, tutti insieme, l’interesse nazionale nel pur auspicabile completamento del processo d’integrazione. Proviamoci. È ancora possibile farlo.


di Cristofaro Sola