Attentato a Pechino e disinformazione

mercoledì 30 ottobre 2013


Un “incidente” in Piazza Tienanmen. Un’auto che va a travolgere la folla di turisti e cinesi proprio sotto il ritratto di Mao, nella piazza resa celebre, tragicamente, dalla repressione dei moti democratici del 1989. La notizia riesce a trapelare e diffondersi, anche con foto e video. Gli sforzi della censura cinese sono vani, quando un fatto di sangue così grave (5 morti e una trentina di feriti) nel cuore di Pechino, sotto gli occhi di mezzo mondo.

La versione ufficiale, per tutta la giornata di lunedì, giorno dell’evento fatale, resta quella dell’“incidente”. Impossibile verificare: la polizia blinda la zona, la censura entra in azione. Il giorno dopo (ieri) si inizia a sentire la parola che tutti già pensavano: “attentato”. Un regime totalitario, con un controllo ossessivo sulla stampa, quale è la Repubblica Popolare Cinese, non usa mai le parole a caso. Quando non può nascondere, tacere o minimizzare, usa una parola che la fa passare per vittima. Dunque si tratta di un “attentato”, di matrice radicale islamica e il mandante è un membro della minoranza etnica degli Uiguri, popolo turcofono, musulmano del Turkestan Orientale. Xinjiang è il nome ufficiale cinese di una provincia occidentale che non si sente affatto parte della Cina. La Cina sarebbe dunque vittima del terrorismo islamico.

Tuttavia, siamo sicuri che si parli proprio della stessa jihad di cui è vittima anche l’Occidente, Israele e gran parte del Medio Oriente? Quella degli Uiguri, per ora, è una causa nazionalista. Di radicalismo islamico se ne vede ancora poco. Non si conoscono grandi movimenti legati ad Al Qaeda o alla galassia del radicalismo salafita. Fonti di Radio Free Asia, piuttosto, riferiscono di continue violenze dei cinesi (polizia e cittadini di etnia Han) ai danni degli Uiguri. Le ultime tre settimane sono state un crescendo di scontri e sparatorie in Turkestan, nella contea di Yarkand. Nell’ultimo episodio di sangue, la polizia cinese avrebbe circondato un edificio sospetto e sparato a cinque persone, uccidendole. Le vittime non erano neppure sospettate di violenze o omicidi.

Di raid simili ve ne sarebbero stati parecchi, prima della festa musulmana del Sacrificio. La polizia, temendo disordini, avrebbe diffuso il terrore per indurre la gente a restare chiusa in casa. All’inizio di ottobre, sempre la polizia cinese avrebbe aperto il fuoco su un gruppo di Uiguri, riuniti in una casa privata. Quattro sono morti. Perché la polizia ha agito col pugno duro? Anche in questo caso, lo ha fatto a mo’ di azione preventiva, temendo che quel gruppo di uomini fosse una “assemblea”. E in Cina, il diritto di assemblea è vietato, specie in una regione turbolenta. Alla fine di settembre, i poliziotti avevano ucciso due uomini “sospetti”, di cosa non si sa. Il condizionale, per la narrazione di questi eventi, è d’obbligo: le fonti ufficiali cinesi non confermano.

Quando possono, negano tutto. Queste notizie giungono a Radio Free Asia solo tramite gruppi di dissidenti uiguri espatriati. L’“incidente” di Piazza Tienanmen è quasi certamente voluto. Di attentato si tratta. Che sia terrorismo non sembra vi siano dubbi. Ammesso che siano Uiguri gli autori, è plausibile che qualcuno di loro abbia perso la testa e abbia deciso di vendicarsi, nel peggiore dei modi, ammazzando anche turisti stranieri e civili. Ammesso che siano Uiguri gli autori. Perché è anche possibile che sia un pretesto, preso dal regime, per intensificare ulteriormente la repressione nel Turkestan.

O, peggio ancora, un attentato fabbricato ad arte dai servizi segreti… È bruttissimo e disonesto intellettualmente pensare a cospirazioni di questo genere. Ma a questo punto è la stessa Cina che spinge a farlo: quando una nazione nasconde qualunque evento accada al suo interno e (quando non lo riesce a fare) cambia versione dei fatti a seconda della sua convenienza, permette di immaginare lo scenario peggiore possibile.


di Stefano Magni