Esercito dei senza lavoro negli Stati Uniti

giovedì 24 ottobre 2013


Notizie tristi dal mercato del lavoro negli Stati Uniti. Sono stati creati 148mila posti di lavoro, 32mila in meno rispetto al previsto. La colpa viene attribuita allo “shutdown”. In realtà, questa debacle, vista in prospettiva, è molto peggiore di quel che sembri. Avremmo dovuto essere tristi anche quando i mercati erano allegri e il numero di posti di lavoro creato negli Usa era superiore, di poche decine di migliaia, rispetto al previsto.

Perché complessivamente, dallo scoppio della crisi ad oggi, in cinque anni, ci sono 10 milioni di americani in più completamente esclusi dalla forza lavoro. Dieci milioni è una cifra immensa. È pari a un sesto della popolazione italiana, uguale alla popolazione di una nazione europea di medio-piccole dimensioni. È un popolo di persone, maschi e femmine, di tutte le etnie, maggiore di 16 anni, che non lavora e non cerca lavoro da almeno un mese. Queste sono le caratteristiche che rispondono ai parametri dell’Ufficio Statistico sul Lavoro americano (Bls), autore del censimento. All’inizio della prima amministrazione Obama, nel gennaio 2009, gli americani non lavoratori erano 80 milioni e 507mila. Nel settembre del 2013, sono 90 milioni e 609mila.

Il superamento della soglia dei 90 milioni è avvenuto questa estate, quando l’esercito dei senza lavoro è passato dai 89 milioni e 957mila di luglio ai 90 milioni 473mila di agosto. Sono le cifre di un disastro, senza mezzi termini. Quale è la causa? La crisi economica è stata un carico pesante da sopportare, per chiunque. Non c’è un nome e un cognome di un colpevole, in questo caso: si è trattato di una tempesta finanziaria, senza un solo responsabile, ma dovuta a una serie di congiunture.

C’è anche un fattore demografico: negli Usa, così come in tutti i Paesi europei, si assiste a un rapido invecchiamento della popolazione. I pensionati non vengono soppiantati da altrettanti giovani. C’è infine una tendenza delle donne americane a stare a casa, soprattutto dall’inizio della crisi. Oggi il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro degli Usa è del 57,1%, mentre nel 2009 era del 59,4%. Ma questi fattori “naturali” non spiegano ancora il perché di un così vasto esercito di disoccupati e inoccupati.

L’ultima spiegazione, dunque è: l’amministrazione Obama. Benché il presidente degli Stati Uniti sia sempre pronto a esprimere giudizi sulle economie degli altri Paesi (ha appena detto a Letta che “L’Italia è sulla buona strada”), la sua economia è inequivocabilmente stagnante. E non è certo solo lo shutdown, causato dal braccio di ferro coi repubblicani in Congresso, la causa di cinque anni di declino. Nel corso del suo primo mandato, Obama ha sempre attribuito le colpe del disastro all’amministrazione Bush e alla crisi economica.

Dal canto suo, sottolinea il miglioramento relativo dell’occupazione. Considerando solo gli iscritti alle liste di disoccupazione (dunque gli americani che non hanno un lavoro, ma lo stanno cercando), la disoccupazione attuale è del 7,3%, mentre all’inizio del suo mandato era di poco superiore al 9%. Questo dato, appunto, non tiene conto dell’esercito di inoccupati, cioè coloro che, non solo non lavorano, ma non cercano nemmeno un nuovo impiego.

Ma, anche preso a sé, dimostra una incredibile lentezza della “ripresa”. Giusto per paragonare Obama a un suo predecessore repubblicano, Ronald Reagan, la politica economica dell’attuale presidente è riuscita ad abbassare di 2 punti percentuali la disoccupazione in cinque anni. Ronald Reagan, arrivato alla Casa Bianca con una crisi occupazionale analoga, se non più grave (9% di disoccupazione), è partito deludendo, ma si è ripreso alla grande.

La “reaganomics” ha creato inizialmente il più alto picco di disoccupazione nella storia recente americana, superando la soglia critica del 10% nel 1982. Ma dal 1983 in poi, costantemente, l’ha abbattuta di un punto all’anno. Già alla fine del 1983 gli Usa erano tornati ad essere una nazione prospera. Il 1984 fu chiamato, dal Times, “L’anno dello yuppy”, cioè dei nuovi ricchi delle grandi metropoli. Nel 1987, l’anno del film “Wall Street”, ci si poteva addirittura lamentare del troppo benessere e dei vizi morali che generava.

Qual è la differenza politica? Reagan era un liberista. Non spendeva soldi pubblici per “rilanciare la crescita”, semmai mirava a facilitare il lavoro degli imprenditori cancellando leggi e regole e, soprattutto, abbassando le tasse. La sua opera di “deregulation”, termine oscuro che si traduce semplicemente con “liberalizzazioni” è stata il motore di una crescita economica tuttora imbattuta, se non altro per la sua durata trentennale. Obama, al contrario, considera la reaganomics quale la causa storica della crisi del 2008. Ora mira a portare a termine la politica inversa: promuovere l’economia dall’alto, aumentando la spesa pubblica e creando debito. Finora i risultati sono quelli che vediamo.


di Stefano Magni