Denis Bilunov, la voce dell’altra Russia

sabato 12 ottobre 2013


“Fare come in Russia” era il motto dei comunisti. Mezzo secolo dopo, “fare come in Russia” è diventato il motto della destra più conservatrice che ammira Putin. Ma i dissidenti democratici, allora come oggi, sono voci isolate e inascoltate. Denis Bilunov era a Milano, questa settimana, ospite del Partito Radicale, in occasione della celebrazione dell’anniversario dell’assassinio di Anna Politkovskaja, giornalista e simbolo del dissenso russo, uccisa da mano ignota il 7 ottobre 2006 mentre indagava sui crimini delle milizie filo-russe in Cecenia.

Bilunov non può certo suggerire “fare come in Russia”: è uno degli oppositori più coerenti al potere di Vladimir Putin. Uno dei fondatori di Solidarnost, movimento ispirato all’azione di resistenza di Lech Walesa in Polonia e inizialmente rappresentato dallo scacchista Garry Kasparov, ora è co-fondatore del partito d’opposizione Cinque Dicembre. Giornalista, storico e attivista democratico, Bilunov ha contribuito a organizzare il dissenso, prima sul web, con il sito Kasparov.ru, poi nelle piazze, con le marce del dissenso dal 2006 al 2008. Le grandi manifestazioni del dicembre 2011, che danno il nome al suo partito, sono scoppiate contro la vittoria fraudolenta delle elezioni da parte di Russia Unita (il partito di Putin e Medvedev).

E sono tuttora le più massicce azioni di protesta nella Russia post-sovietica, con centinaia di migliaia di persone pronte a sfidare il gelo polare e la violenza della polizia nelle piazze di Mosca. La storia del dissenso russo contemporaneo suggerisce che ben poco è cambiato dalla fine dell’Urss. Il fatto stesso che i dissidenti siano dissidenti e non oppositori o partiti di minoranza, la dice lunga. Il nome del movimento “Solidarnost” rappresentava una continuità diretta con la resistenza anti-comunista Solidarnosc in Polonia. L’avversario di oggi è sempre il Kgb, rappresentato da Putin. Stessa lotta condotta dagli stessi attori.

Ma la Russia di oggi potrà liberarsi come la Polonia di allora? Quel che diede la sveglia a Danzica e a Varsavia fu la visita di Giovanni Paolo II nel 1979. La religione, più ancora che il nazionalismo polacco fu il collante dell’opposizione al regime comunista. Quanto si può contare sul fattore religioso in Russia? «Io direi che non possiamo proprio contare su questo fattore – ci risponde Bilunov – La Chiesa Ortodossa russa è stata completamente distrutta in 70 anni di regime sovietico, ricostruita e trasformata in una vera e propria branca del Kgb.

La gente, per tradizione, rispetta gli usi ortodossi. Le persone anziane, soprattutto, vanno in chiesa. E battezzare i propri figli è una moda negli ultimi anni. Ma lo spirito religioso, rispetto alla Polonia, è pressoché nullo». Il 90% dei cittadini sovietici si dichiarava atea. A 22 anni dalla fine dell’Urss, solo il 30% dei russi (stima per eccesso) si dichiara atea o agnostica, il restante 70% è costituito da ortodossi, musulmani, ebrei (sempre meno) e una consistente minoranza buddista. «È un fatto culturale e una questione di identità. La gente ha bisogno di punti di riferimento culturali. Anch’io, quando penso alla Madre Russia, penso anche alla Chiesa Ortodossa. Ma l’identità è differente dal sentimento religioso, nel senso spirituale del termine. Forse, in futuro, potrà essere recuperato.

 Ma adesso non si vede». L’ultima, terribile, notizia di questa settimana dalla Russia riguarda un dissidente, Mikhail Khosenko, condannato all’ospedale psichiatrico, come ai tempi di Chrushev e Brezhnev, Andropov e Chernenko. Ma se il regime russo ha ancora tutte le caratteristiche di quello sovietico, quanto resta, nella gente comune, della vecchia mentalità del socialismo reale? «È rimasto, nella gente comune, il desiderio e il bisogno di uno Stato che ti tutela in tutto e per tutto. Io la chiamerei una forma di infantilismo sociale.

 Anche per questo motivo la gente di provincia, facilmente, si indebita fortemente senza rendersi conto che i soldi devono essere restituiti. Molti si ficcano nei guai, per godere di un lusso esagerato che non potrebbero permettersi. E questa è proprio l’eredità sovietica: la gente è abituata a contare sullo Stato, per tutti i suoi bisogni, senza assumersi responsabilità. Non c’è neppure una responsabilità nei confronti della famiglia, pochi realizzano che devono contare soprattutto sulle loro forze e capacità». Come indicatore di benessere, tuttavia, vediamo sempre più russi che vengono in vacanza qui in Italia.

 E sembrano appartenere a una media borghesia, non più casi di singoli ricchissimi oligarchi. «Noi speriamo vivamente che, prima o poi, nasca e cresca una vera media borghesia. Ma non c’è ancora. Questa gente che viene qui in Italia appartiene a quel livello sociale. Ma dobbiamo renderci conto che, su 140 milioni di russi, dai 3 ai 5 milioni possono permettersi di viaggiare lontano e creano l’impressione di un grande flusso turistico. Il numero di turisti svedesi è paragonabile a quello dei russi, ma su una popolazione enormemente inferiore. Quindi, non vorrei che a Rimini o a Viareggio si facesse troppe illusioni: quei turisti non riflettono la realtà sociale della Russia».

 La Russia ha alle sue spalle la storia terribile del regime sovietico: 20 milioni di morti assassinati dal governo nel solo periodo di Stalin (1924-1953). Come vengono affrontati la storia sovietica e il democidio staliniano, sui libri di storia, oggi? «Con una serie di banalità. La storiografia contemporanea esalta lo Stato forte e cerca di tracciare una linea di continuità nell’intera storia russa, passando per Ivan il Terribile, Pietro il Grande e Stalin. I movimenti e i personaggi democratici sono taciuti. Sulle persecuzioni staliniane, le cifre sono minimizzate o taciute del tutto. C’erano “alcuni abusi” negli anni ’30, però Stalin, a grandi linee, aveva ragione. Questo è il messaggio che passa sui nostri testi di studio».

Ma con una religiosità ancora molto superficiale, un invadente retaggio sociale del socialismo reale e una classe media, tutto sommato, striminzita, su chi può contare l’opposizione? «Il nostro campo d’azione più immediato è la città di Mosca, dove i ceti medi sono molto più numerosi rispetto al resto del Paese. Però, piano piano, speriamo che questa base sociale aumenti, almeno nelle altre grandi città della Russia».


di Stefano Magni