Gardini: Usa e Ue, due tesi sul global warming

sabato 28 settembre 2013


Il nuovo rapporto dll’Ipcc, il panel internazionale per il cambiamento climatico, ha stabilito che il riscaldamento globale sia causato principalmente dall’uomo. E specialmente nell’ultimo mezzo secolo, in coincidenza con il boom industriale. Prevale dunque una delle due tesi sul global warming, quella del riscaldamento “antropico”, causato dall’opera umana.

Non è detto che sia la tesi più corretta. Ci sono minoranze di ricercatori e scienziati che sostengono, con cognizione di causa, che: a) il riscaldamento globale non è certo, dato che si riscontrano anche fenomeni di raffreddamento negli ultimi inverni b) il cambiamento climatico è soprattutto naturale, perché gli elementi che più influiscono sono attività vulcanica e solare. Il dibattito sul global warming ha un impatto diretto su quello politico. Gli ecologisti, condividendo la tesi di maggioranza (riscaldamento antropico) mirano a una riduzione della potenza industriale del mondo più sviluppato e della “impronta umana” in senso lato: il numero degli esseri umani, la loro crescita demografica e il livello del loro consumo delle risorse. Appellandosi, invece, allo scetticismo sul global warming, i conservatori sottolineano soprattutto i danni economici delle politiche varate contro il riscaldamento globale.

Al Parlamento Europeo abbiamo incontrato Elisabetta Gardini, eurodeputato di Forza Italia (Partito Popolare Europeo), membro della commissione Ambiente, Sanità pubblica e Sicurezza alimentare. Il Parlamento Europeo non è la sede adatta per parlare di scienza. Qui le teorie arrivano come un “dato”, tenendo conto del quale si formulano le proposte. Con Elisabetta Gardini abbiamo parlato, dunque, delle politiche sul clima. In primo luogo, occorre ricordare una cosa: per raggiungere gli obiettivi fissati nell’ambito della lotta al global warming, si deve, principalmente, regolare l’energia, sia in termini di risparmio energetico, sia in quelli delle emissioni dovute alla produzione di energia.

 E, in entrambi i casi, c’è un costo da pagare. «Il prezzo dell’energia ha un impatto immediato sull’economia, soprattutto sulle piccole e medie imprese – ci spiega - Il 40% del costo di produzione è dovuto all’energia. In Germania, con la politica energetica di Angela Merkel, i prezzi si sono alzati, ai livelli italiani, e l’anno scorso molte aziende hanno chiuso perché non potevano più permetterseli. Quando sento gli italiani che continuano a lavorare in condizioni ancora peggiori, mi convinco che abbiamo degli imprenditori eroici. È questo il problema centrale dell’Alcoa: non riesce più ad essere competitiva.

 Non si può stare sul mercato con costi energetici così elevati (aggiungendoci, poi, il costo del lavoro e tutto il resto)». Per ridurre le emissioni, servono fonti energetiche che emettono poca Co2, come le centrali nucleari. In un periodo in cui si punta a ridurre la dipendenza dall’energia dell’atomo e all’utilizzo di fonti rinnovabili, i costi in bolletta possono lievitare ulteriormente, come ci spiega l’onorevole Gardini: «Le rinnovabili non assicurano continuità nella fornitura di energia ed hanno ancora prezzi non abbordabili. Quel poco che abbiamo ci aumenta il costo del 17%. Piuttosto, il nucleare non è affatto un’energia ferma alle tecnologie dei decenni scorsi. La nuova generazione sarà molto sicura e potrà addirittura riutilizzare le scorie.

 Si stanno affermando progetti pilota di impianti piccoli. Anche in Italia continuiamo a lavorarci, a livello di ricerca tecnologica. E tagliarci le gambe in partenza, non è la scelta più saggia per noi». C’è chi, contrariamente all’Europa, rifiuta di firmare il protocollo di Kyoto. In particolar modo gli Stati Uniti. Quali sono le ragioni di questo rifiuto? «Io sono stata con la delegazione europea dell’ambiente a Washington, già prima della conferenza di Copenaghen, quando si pensava ancora che Barack Obama, dopo la sua vittoria, avrebbe aderito al Protocollo di Kyoto. Abbiamo incontrato senatori democratici (non repubblicani: loro, al solo sentir parlare di Kyoto, rifiutano il dialogo) e l’agenzia ambientale americana, l’Epa. I democratici stessi, però, ci dissero chiaro e tondo che Obama non avrebbe potuto firmare.

E lo disse John Kerry (allora senatore, oggi Segretario di Stato, ndr), uno dei più ecologisti fra i politici americani. Un presidente degli Stati Uniti non può firmare un trattato internazionale se il Congresso non ha varato una legge nazionale che lo recepisca in ogni suo articolo. Nei primi due anni, il tema dei democratici era esclusivamente la riforma sanitaria. Anche quella difficile da portare a compimento. Non ci sarebbe stato spazio alcuno per un’altra svolta importante come la firma di Kyoto. Poi i democratici hanno perso la maggioranza al Congresso nel 2010 ed è diventata una battaglia impossibile. Considerando che anche i democratici degli “stati del carbone” sono contrari, non c’è alcuna maggioranza possibile per l’adesione al Protocollo».

 Gli americani, però, ricordano agli europei che: «“Noi saremo anche sporchi e cattivi perché non abbiamo firmato Kyoto, ma se andiamo a vedere le cifre sulle emissioni, noi le abbiamo ridotte, mentre voi le aumentavate”. Per gli Usa, il riscaldamento globale non è un problema che possa essere gestito a livello internazionale, non hanno alcuna intenzione di avere qualche ispettore esterno che vada a controllare e sindacare a casa loro». È anche una differenza di flessibilità, quella che c’è fra Vecchio e Nuovo mondo: «Quando siamo andati a Washington, a parlare con i funzionari dell’Epa, l’agenzia statunitense per l’ambiente, ci siamo accorti che il loro approccio fosse completamente diverso. I nostri funzionari chiedevano “ma su che tecnologie puntate”? E loro non capivano neppure la domanda.

 Non puntano su alcun metodo aprioristicamente, aspettano che il migliore emerga dalla competizione fra privati. Quella che risulterà essere la più efficace e la meno costosa, sarà la prescelta. Noi, in Europa, abbiamo invece puntato sulla cattura e lo stoccaggio della Co2. E, a posteriori, ci siamo resi conto che non sta funzionando, per lo meno: non nei tempi previsti. Questo determinismo, centralista, pianificatore, è il vero limite dell’Ue: si sceglie in base allo stato dell’arte della tecnologia di oggi, ma domani lo scenario potrebbe già essere cambiato. Lo stesso vale per i biocarburanti. Il target era fissato al 10%, ma poi ci si è resi conto che i biocarburanti andavano a sottrarre risorse agli obiettivi alimentari. E allora la Commissione è riuscita, con un nuovo documento, a ridurre il target. Per le industrie, che hanno bisogno di regole certe, è un disastro».


di Stefano Magni