Ecco come Lustick ti spazza via l’ebraismo

martedì 24 settembre 2013


Voglio proporvi un quiz.

Cosa racconta a proposito del Medio Oriente il New York Times, la testata di spicco degli USA, di così importante da dedicarle la maggior parte della prima pagina del suo inserto domenicale di dodici pagine di questa settimana più due pagine interne e una grafica accattivante? Trattasi forse della Siria? Dopo tutto, la decisione a sorpresa del governo americano di utilizzare la diplomazia e collaborare con Mosca per forgiare un accordo sull’arsenale di armi chimiche siriano è uno dei più grandi sviluppi geopolitici nella storia recente.

Se l'affare è fattibile, e se porterà ad un allungamento o ad un accorciamento della durata del regime del presidente Assad, non è una domanda di poco conto. Inoltre, il flusso continuo di profughi Siriani, che conta oggi oltre due milioni di persone che stanno affollando i paesi confinanti, tra cui il fragile Libano, è un dramma politico e umano di enorme rilevanza. No, non si tratta della Siria. Trattasi forse del destino dei Cristiani in quella regione? Mentre i cristiani una volta costituivano una percentuale significativa delle popolazioni di molti paesi del Medio Oriente, il loro numero è in rapido declino, ed in quanto minoranze sono soggetti a violenze e persecuzioni.

Dal momento che lo status delle minoranze è uno specchio piuttosto accurato della salute di una società, anche questo non è cosa da poco. E invece no, la prima pagina dell’inserto domenicale di questa settimana non riguarda la sofferenza dei cristiani in quella regione, e cosa ciò possa significare per il futuro. Trattasi forse della Turchia e di come, esattamente 90 anni dopo l’introduzione della visione kemalista di una moderna nazione occidentale orientata, il primo ministro Erdogan stia smantellando quella visione pezzo a pezzo, sostuendola con la sua di visione, che avrebbe fatto rivoltare Atatürk nella tomba? Così come la rivoluzione di Atatürk quasi un secolo fa fu tra i principali sviluppi del Novecento, allo stesso modo quello di Erdogan è un più tranquillo, ma non meno significativo, dietro-front.

Trovandosi al crocevia tra Europa e Asia, a ridosso del Medio Oriente, ed essendo un membro della NATO, ciò che accade in Turchia ha implicazioni che vanno ben oltre i suoi confini nazionali. No, non si tratta della Turchia. Trattasi forse della rivalità per la supremazia nel Medio Oriente, con Turchia, Iran e Arabia Saudita in cerca di avvantaggiarsi tra le sabbie mobili della regione, cercando di proteggere i loro interessi fondamentali, e di riempire il vuoto creato dal ritiro americano? In questa nuova versione della lotta per il potere regionale, l'esito è tutt'altro che certo, e la posta in gioco non potrebbe essere più alta.

No, non si tratta di nuove alleanze e nuovi rivali. Trattasi forse dell’Egitto, il più grande Paese arabo? Dopo tutto, il paese è ancora nel bel mezzo del cambiamento dopo i mega-eventi degli ultimi anni, e le scelte che verranno prese hanno implicazioni profonde per la regione, l'Occidente e il mondo intero. Può il Paese risolvere i suoi conflitti interni, riavviare l'economia, e fornire almeno una parvenza di un futuro certo per la sua popolazione in rapida crescita? In caso contrario, non cambiate canale. No, neanche l’Egitto è il tema di questa settimana.

Trattasi forse dell’Iraq, che dieci anni dopo l’invasione da parte degli Stati Uniti, sta discendendo in un abisso fatto di lotte tra fazioni ed atti di terrorismo quotidiani, oltre che a subire sempre più l’influenza dell’Iran? No, non si tratta dell’Iraq. Trattasi forse dei problemi endemici che affliggono il mondo arabo, i problemi di fondo che sono stati evidenziati nel Rapporto sullo sviluppo umano nel mondo arabo sponsorizzato dalle Nazioni Unite, e che continuano ad affliggere la regione, rendendola così violenta, instabile e imprevedibile? No, non si parla dei ritardi nell’alfabetizzazione, dei pochi diritti per le donne, della scarsa innovazione, o della cultura della colpa, o dell'introspezione.

Piuttosto, il tema principale dell’inserto è dedicato alla "chimera di una soluzione a due Stati negoziata" tra israeliani e palestinesi. Altrove nel lungo articolo, questa è indicato come un "miraggio", una "finzione", o una "fantasia". Zero possibilità di un accordo a due stati, sostiene l'autore, Ian Lustick, mentre si reca a studiarne un altro al tavolino. La risposta che tira fuori - e qui ci vuole un rullo di tamburi, per favore - è una soluzione ad un unico stato, esattamente come quella proposta del leader libico Muammar Gheddafi in un editoriale sul New York Times nel 2009. Lustick immagina un futuro in cui "gli israeliani le cui famiglie provenivano da paesi arabi potrebbero trovare nuove ragioni per pensare a se stessi non come 'orientali', ma come arabi".

Il Sionismo, egli afferma, è diventato "un'idea superata," e gli israeliani devono accettare il fatto che "Israele non può più esistere come la visione ebraica e democratica dei suoi fondatori sionisti". Così, dal suo trespolo nella Philadelphia ovest, Lustick spazza con nonchalance quello che lega l’ebraismo ad un popolo, una terra, e una fede.

Lustick sostiene che una nazione la cui popolazione è cresciuta da 650.000 persone nel 1948 a oltre otto milioni nel 2013, è uno stato membro delle Nazioni Unite dal 1949, appartiene al club OCSE delle nazioni più industrializzate del mondo, ha più start-up quotate al NASDAQ di tutti, a parte una o due altre nazioni, ha la più potente forza militare della regione, e continua ad avere un forte ethos nazionale, cioè il sionismo, in realtà, non ha futuro.

A proposito di illusioni, la parola usata nel titolo di questo articolo ("L’illusione dei due stati"), anche lui ignora allegramente la plateale realtà del Medio Oriente, e cioè che la sua soluzione porterebbe immediatamente a violenze tra le varie comunità ed a spargimenti di sangue su vasta scala. Ed evita il percorso dei due stati, anche se molti negli Stati Uniti, Europa, Israele, e alcune parti del mondo arabo, sapendo che la risposta di Lustick non è una risposta, si sono nuovamente impegnati per la sua realizzazione.

E se la vogliamo mettere sul personale, ho chiesto ad alcuni di quegli "israeliani le cui famiglie provenivano da paesi arabi" per sentire cosa ne pensassero del consiglio di Lustick, che comincino a ridefinire se stessi come "arabi". Le loro reazioni non sono pubblicabili per motivi di decenza. Diciamo che si sono domandati se Lustick sapesse una qualunque cosa sul Medio Oriente, visto che il New York Times sembra pensare di sì.

(*) David Harris è direttore esecutivo dell'AJC - American Jewish Committee www.ajc.org


di David Harris (*)