Washington DC: 13 vittime disarmate

mercoledì 18 settembre 2013


Tredici morti nell’arsenale più antico d’America, il Navy Yard nel cuore di Washington DC, la capitale degli Stati Uniti. Un solo killer, Aaron Alexis, ucciso durante la sparatoria. Nessun movente terroristico. Sfumata la paura di un attacco di Al Qaeda (a pochi giorni dalle minacce lanciate dall’ideologo della rete del terrore, Ayman Al Zawahiri), si cerca il vero movente. La motivazione della strage è ignota. Non si capisce come Aaron Alexis, 34enne, ex ufficiale della Marina, impiegato in una agenzia collegata alla Hewlett Packard e fornitrice di servizi alle forze navali degli Stati Uniti, abbia deciso di entrare negli uffici dell’arsenale grazie a un pass (che gli era stato rinnovato la scorsa estate), armato di pistola, shotgun e fucile semi-automatico Ar-15, per uccidere tutti coloro che gli sono capitati sotto tiro. Tredici li ha assassinati subito, altri dieci sono feriti, alcuni dei quali versano in gravissime condizioni, come nel caso di una donna colpita alla testa.

Non si riesce (ancora, per lo meno) a individuare alcun movente economico. Non c’è alcun movente terroristico, né alcuna rivendicazione. Non c’entra neppure l’Islam: Aaron Alexander si era da poco convertito al buddismo. I motivi del suo gesto folle e suicida resteranno chiusi nella mente del signor Alexis. Se li porterà con sé nella tomba. Una mente malata, secondo i testimoni e i documenti che lo riguardano. Ufficiale di Marina dal 2007 al 2011, due medaglie di servizio guadagnate sul campo (ma non in combattimento), uno dei primi soccorritori volontari dell’11 settembre 2001, era però stato dimesso per “cattiva condotta”. Un giorno dopo la strage, avvenuta lunedì mattina, si è scoperto che fosse in cura psichiatrica: paranoia e allucinazioni. E nessuno gli aveva revocato il porto d’armi. Ecco che, allora, si è subito infiammato il dibattito sui controlli di background. Come fa un folle dichiarato ad essere armato? Si va a rinvangare nel passato dello stragista e si scopre che il motivo del suo congedo dalla Marina era proprio un uso troppo disinvolto delle armi, quando era in licenza. Ne aveva usata una entro il perimetro cittadino, poi, in un altro incidente, aveva bucato il soffitto di casa sua con un colpo di rivoltella, spaventando a morte una vicina di casa.

La National Rifle Association (Nra), la principale lobby delle armi negli Stati Uniti, si era opposta all’estensione dei controlli di background ai venditori (oltre che ai portatori). Lo aveva fatto per un motivo molto pratico: controllare tutti gli americani che vendono o detengono un’arma, dunque il 94% della popolazione, equivarrebbe a istituire uno Stato di polizia. In ogni caso, visto che stiamo parlando di un Paese con 317 milioni di abitanti, il controllo assiduo andrebbe esteso ad un numero di abitanti troppo elevato. Quindi è impossibile. In questo caso sarebbe stato anche del tutto inutile. Si è infatti scoperto che Aaron Alexis avesse acquistato legalmente il suo fucile a pompa in Virginia. Dopo aver passato positivamente il suo controllo di background. Le altre due bocche da fuoco, il semi-automatico Ar-15 (che i progressisti vogliono vietare) e la pistola, le avrebbe invece rubate alle vittime, sulla scena del delitto. Dunque le leggi proposte da Obama (estensione dei controlli di background, divieto delle armi semi-automatiche e limiti imposti al numero dei proiettili vendibili) non avrebbero prevenuto la strage di lunedì.

L’imposizione delle regole volute da Obama avrebbe solo una valenza simbolica. A meno che non siano da intendersi come la premessa del disarmo generale della popolazione. Ma a questo punto verrebbe violato uno dei cardini della Costituzione statunitense, il Secondo Emendamento. Introdotto subito dopo la Rivoluzione Americana, per permettere ai cittadini di difendersi, eventualmente, anche dal loro stesso governo, il diritto a portare armi è un’istituzione che rende l’America unica nel mondo: un popolo libero in quanto armato, detentore della propria sicurezza assieme allo Stato e non un popolo di sudditi disarmati e dipendenti, in tutto e per tutto, dal proprio governo. Cambiare questa regola vorrebbe dire cambiare il volto all’America.

Quel che notano la Nra e i conservatori statunitensi è un altro aspetto del problema, che i commentatori progressisti (negli Usa e in Europa) non vogliono neppure prendere in considerazione. I nordamericani, essendo il popolo più armato del mondo, sono anche il popolo più violento? Nonostante le notizie sulle stragi negli Usa facciamo molto clamore, la risposta è: no. La grande federazione nordamericana non è il Paese più violento. Il tasso dei omicidi è di 4,7 ogni 100mila abitanti, un nonnulla rispetto a quello che si registra in nazioni americane dove le armi sono meno diffuse, come l’Honduras (con un tasso del 91,6 ogni 100mila), la Giamaica (40,9) e il Messico (23,7). Ci sono anche Paesi dell’Unione Europea in cui il tasso di omicidi è più alto che negli Usa, quali la Lituania (6,4), e l’Estonia (4,8). Ma se ne parla molto meno. In fatto di concentrazione di violenza, gli Usa sono al di sotto della media mondiale. Considerando la loro enorme e variegata popolazione multietnica, con immigrati che giungono da tutti gli angoli della Terra, sono un vero miracolo di stabilità e pace. Dipingerli come un inferno dominato da demoni pistoleri è puro pregiudizio. Il secondo aspetto che la Nra non finisce mai di sottolineare è: tutti i massacri indiscriminati avvengono in luoghi in cui le armi sono vietate. E, dunque, nessuno ha la possibilità di difendersi. Il District of Columbia, il distretto della capitale, è uno degli stati più proibizionisti in merito. Non solo: il Navy Yard, dove è avvenuta la strage, è “gun free”, area in cui è vietato portare armi. Esattamente come la Columbine, il Virginia Tech, la scuola elementare di Sandy Hook… il dente dell’assassino affonda dove trova il morbido. Dove c’è una massa disarmata sui cui sfogare i propri istinti. Non è assurdo affermare che vi sarebbero meno vittime, se a ciascuno fosse data la possibilità di difendersi.


di Stefano Magni