Siria, i numeri della sconfitta di Obama

giovedì 12 settembre 2013


Contrordine compagni, abbiamo scherzato. L’intervento militare in Siria può attendere: prima si deve lasciare spazio alla diplomazia e il mediatore sarà la Russia di Putin. È questo il messaggio lanciato da Barack Obama, rinviando a data da destinarsi il voto in Congresso sull’intervento armato. I quotidiani, da domani in poi, faranno certamente a gara per parlare della lungimiranza di un presidente “che non vuole la guerra” e dà un’altra chance alla diplomazia (della Russia?) prima di lanciare i missili da navi già schierate nel Mediterraneo.

 Quel che i media diranno fra i denti, o non diranno affatto, sono i numeri di una clamorosa sconfitta diplomatica che impedisce a Obama di intervenire come vorrebbe. E allora vediamoli, questi numeri. Al G20 di San Pietroburgo, Barack Obama ha cercato di mettere in piedi una “coalizione di volenterosi” con cui fare la guerra al dittatore Bashar al Assad. Non ce l’ha fatta. Di 20 membri del G20, 10 hanno firmato un documento con cui avallano una “forte risposta internazionale”, che vuol dire tutto e il contrario di tutto. Di favorevoli all’intervento ci sono solo 2 Paesi: Francia e Gran Bretagna. Di questi 2 Paesi, la Gran Bretagna vorrebbe ma non può: il premier David Cameron non ha il consenso del Parlamento. Alla fine, Obama cercava il consenso di almeno 18 Paesi (per isolare Cina e Russia, dichiaratamente dalla parte di Assad) e ne ha trovato solo 1: la Francia governata da un presidente, François Hollande, che ha già dichiarato di non voler “ballare da solo”. Obama cercava il consenso interno del Congresso.

 A giudicare dalle intenzioni di voto espresse sino all’11 settembre, vediamo che alla Camera, Obama otterrebbe l’appoggio di appena 26 deputati, mentre 255 sono dichiaratamente contrari. La maggioranza assoluta è già per il “no”. In Senato (a maggioranza democratica) va solo un po’ meglio: 40 sono a favore, 26 contrari e gli altri indecisi. Ma occorre una maggioranza di almeno 51 voti per avere luce verde. Questi numeri spiegano, da soli, perché Obama abbia deciso di “ridare spazio alla diplomazia”, dopo averla marginalizzata per tre settimane. Se si fosse presentato al Congresso, per sottoporre al voto un intervento armato, avrebbe certamente incassato una clamorosa sconfitta politica, abbastanza forte da sotterrarlo.

Costretto, dai numeri, a cambiare linea, Barack Obama ha lanciato comunque il suo discorso alla nazione per spiegare le ragioni di un intervento armato. In questo breve intervento televisivo, c’è un passaggio che rischia di sfuggire, ma è rivelatore della difficoltà in cui versa il comandante in capo: «Io non condurrò un’azione di guerra aperta, come in Iraq o in Afghanistan. E non ordinerò una campagna aerea prolungata, come in Libia o in Kosovo». Quindi: tranquillo Assad, anche se parto all’attacco, sai già che non farò sul serio. Finora non si è mai visto un comandante in capo lanciare un simile messaggio a un futuro, potenziale, nemico. Se Obama parla in questi termini, è perché si rivolge ad una popolazione che non vuole la guerra. E infatti (ecco un altro numero determinante), secondo il sondaggio Cnn/Orc International, una fonte solitamente favorevole a Obama, 7 americani su 10 ritengono che un intervento armato in Siria non risponde agli interessi nazionali americani.

Inoltre, nello stesso sondaggio: il 59% ritiene che il Congresso non debba autorizzare l’uso della forza. Il 55% è contrario a raid aerei contro obiettivi in Siria. Il 71% si oppone all’idea di un intervento voluto da Obama senza l’autorizzazione del Congresso. Questi sono i numeri di una sconfitta politica. Obama, per tre settimane, ha cercato di convincere i suoi alleati, il Congresso e gli americani della necessità di intervenire. E non ce l’ha fatta. Ora ridà spazio alla diplomazia accettando una discutibile proposta russa: lasciare allo stesso Bashar al Assad il tempo e il modo di far ispezionare le sue armi chimiche a controllori internazionali. Se non è una resa, poco ci manca. Una brutta dimostrazione di insicurezza internazionale, nel giorno del 12mo anniversario dell’11 settembre.


di Stefano Magni