Il circo giudiziario nell’Asia comunista

sabato 31 agosto 2013


Purghe, processi sommari e fucilazioni nell’Asia comunista. In Corea del Nord fucilano 12 personaggi dello spettacolo, fra cui l’ex fidanzata dell’attuale dittatore Kim Jong-un e la notizia suscita un’onda di sdegno nell’opinione pubblica occidentale. In Cina, però, si è appena concluso un processo staliniano a carico di Bo Xilai, ex astro nascente del Partito Comunista, e nessuno si scandalizza. Ora processeranno anche un funzionario, accusato di corruzione e la notizia viene accolta quasi con soddisfazione dai nostri media.

Il crimine nordcoreano è palese e non può essere soggetto a doppie interpretazioni. Si è trattato di un omicidio di Stato plurimo, premeditato e senza alcuna difesa possibile per le vittime. Benché le notizie siano ancora vaghe, riferite da fonti sudcoreane e cinesi, emergono particolari raccapriccianti. Hyon Song-wol, cantante pop, ex fidanzata del dittatore, sarebbe stata fucilata davanti agli occhi dei suoi genitori. All’esecuzione, avvenuta in pubblico, hanno dovuto assistere parenti ed ex colleghi.

Ora per i parenti dei 12 fucilati, si potrebbero aprire le porte dei gulag, dove scontare una condanna ai lavori forzati e una “rieducazione”. L’accusa formale parla di “violazione della legge anti-pornografia”. Sia Hyon Song-wol che le altre vittime della strage di Stato, sarebbero ree di essersi fatte riprendere in video pornografici clandestini. Secondo le fonti sudcoreane e cinesi che hanno riportato la notizia, si tratterebbe di una storia di gelosia, non di pornografia. Fra le vittime figura infatti anche un’altra cantante pop, Mun Kyong-jin, vincitrice nel 2005 di un concorso internazionale in Ungheria nel 2005 e a capo della Unhasu Orchestra, gruppo di cui faceva parte la cantante Ri Sol-ju, attuale moglie di Kim Jong-un. Sarebbe Ri Sol-ju l’anima oscura di questa vicenda: con la fucilazione di queste 12 persone, avrebbe fatto piazza pulita di una potenziale rivale e della ex fidanzata del marito. Difficile, comunque, confermare questi pettegolezzi di corte di un Paese che, non a caso, è noto come “regno eremita”.

Quel che stupisce, piuttosto, è la trasparenza con cui è stato celebrato il processo a Bo Xilai, nell’altra nazione comunista asiatica, la Cina. Trasmesso in televisione, aperto ai giornalisti, trascritto e mandato subito online, accessibile al grande popolo di Internet e ai curiosi di tutto il mondo, si è consumato un atto di giustizia di tipo staliniano. Più raffinato rispetto alle brutali fucilazioni sommarie nordcoreane, ma non meno raccapricciante. La stampa internazionale (compresa quella italiana) non ha praticamente mai messo in discussione l’imparzialità dei giudici cinesi.

Senza contare, però, che questi hanno fondato la loro accusa su una “confessione” della moglie di Bo Xilai, Gu Kailai, già in carcere da un anno con l’accusa di omicidio dell’uomo d’affari britannico Neil Heywood. La signora Gu è ancora viva, anche se è stata condannata a morte. La pena è “sospesa”. In cambio della sospensione c’è la sua confessione? E quante pressioni sono state esercitate sulla prigioniera? Con che metodi? Lo stesso Bo Xilai ha “confessato”, ma non ha mai riferito, in sede processuale, dove sia stato detenuto e cosa gli sia stato fatto in questi 17 mesi di carcere. La stampa si è addentrata molto nelle vicende personali di “Lady Macbeth” Gu Kailai e del marito. Durante il processo, è anche emerso che l’ex braccio destro di Bo Xilai, il super-poliziotto Wang Lijun, ha avuto una tresca con la moglie dell’accusato. E così si coprono i problemi veri. Quando era alla testa del partito a Chongqing, Bo Xilai era noto per la sua linea dura “contro la mafia”, che includeva anche processi arbitrari e confessioni estorte con la tortura. La sua vera colpa non sarebbe quella di corruzione, abuso di potere e insabbiamento di un omicidio commesso dalla moglie, bensì quella di aver scoperto addentellati fra la mafia e i vertici nazionali del Partito. Inoltre avrebbe ricattato questi ultimi, provocando la loro immediata reazione repressiva. Di tutto ciò non è emerso nulla nel processo “trasparente”.

Piuttosto è stata fatta una gran cagnara mediatica su corruzione, corna e omicidi misteriosi. Forse i blogger non se ne sono accorti: infangare gli accusati, colpendoli nella loro vita personale ed esponendo scandali familiari e sessuali, era la tipica tecnica dei processi staliniani. Tutti i dissidenti e i membri del partito epurati, diventano sempre e comunque anche truffatori, sessualmente infedeli o impotenti, ladri, corrotti e maniaci. Finché queste accuse rimanevano nelle mura dei regimi totalitari, Amnesty International o altre organizzazioni per i diritti umani avevano sempre il tempo di investigare ed esporre nei loro rapporti l’ingiustizia della “giustizia” politica totalitaria.

Ora i cinesi hanno fatto un passo avanti, hanno condotto un primo esperimento mediatico: hanno esposto al pubblico ludibrio una loro vittima. Esperimento riuscito: il mondo ride. Adesso riderà ancora di più nel momento in cui inizia il nuovo processo eccellente, a carico di un funzionario accusato di corruzione, Yang Decai, diventato estremamente impopolare su tutti i social media da quando era stato fotografato, sorridente, sulla scena di un grave incidente d’autobus. I social media lo avevano accusato di cinismo e avevano mostrato le sue foto, sottolineando i suoi begli abiti e il suo orologio costoso. Nel nome della sua campagna contro la corruzione, il regime di Xi Jinping adesso lo ha messo sotto processo. I social media chiedono, gridando, la pena di morte. Il buon giorno della democrazia digitale si vede dal mattino.


di Stefano Magni