Iraq e Siria, trova le differenze

giovedì 29 agosto 2013


La rapidità con cui si è sviluppata la crisi militare siriana rende difficile ogni previsione. La guerra civile sta proseguendo dal marzo del 2011, ma fino a questa estate era fuori discussione un intervento militare statunitense. La scorsa primavera, dopo il primo sospetto uso di armi chimiche, presumibilmente da parte del regime di Bashar al Assad (tuttora non vi sono prove inoppugnabili), la massima reazione dell’amministrazione Obama e del Congresso degli Stati Uniti era stata la proposta di armare i ribelli. La situazione sul terreno è cambiata, in peggio, sul fronte ribelle negli ultimi due mesi. Il nuovo fronte di guerra che si è aperto fra Al Nusrah (organizzazione dichiaratamente qaedista) e l’Esercito Siriano Libero, l’intervento diretto di Hezbollah al fianco di Bashar al Assad e l’offensiva sferrata da quest’ultimo, hanno permesso al dittatore di consolidare il controllo a Damasco e nella Siria occidentale, passando al contrattacco anche nel Nord, vicino alla Turchia e controllato dai ribelli.

In questa situazione mutata repentinamente, la reazione statunitense a un secondo possibile (anche se non certo) uso di armi chimiche, ha fatto sì che la reazione statunitense fosse molto più drastica. La linea rossa è sempre quella: nessun uso di armi chimiche. La punizione prevista per chi la oltrepassa è cambiata: armare i ribelli, evidentemente, non era sufficiente, si passa dunque alla minaccia di intervento militare diretto. Il segretario di Stato John Kerry e il segretario alla Difesa Chuck Hagel (che sono rispettivamente un ex pacifista e un ex isolazionista… ironia della sorte), stando alle loro dichiarazioni, esprimono molto decisionismo. Fra gli alleati della NATO, oltre alla Turchia, che è in prima linea, c’è per ora l’appoggio sicuro della Gran Bretagna e quello quasi sicuro della Francia. L’Italia, per ora, attende un responso dell’Onu, senza un chiaro mandato si resta neutrali.

La velocità con cui queste decisioni sono state prese impone un confronto con il precedente intervento statunitense in Iraq, nel 2003. Anche perché, nelle nostre vie e nelle nostre piazze telematiche, il dibattito che era tanto infuocato allora, oggi è completamente assente. Dove sono le bandiere arcobaleno? Cosa fanno i campi anti-imperialisti? I milioni di uomini e donne scesi in campo contro la guerra, nel 2003, hanno tutti cambiato idea? Si sta diffondendo, anche negli editoriali dei principali quotidiani (italiani, oltre che statunitense) l’idea che l’intervento in Siria sia “diverso” da quello in Iraq e molto più giustificabile di quest’ultimo. Dal conflitto in Libia (2011) in poi, sta diventando un’abitudine degli intellettuali progressisti ritenere che la guerra fatta da Obama (premio Nobel per la Pace) sia un po’ meno guerra di quella fatta da Bush. Vediamo allora, quali sono differenze e analogie fra i due conflitti.

Tempi: la crisi siriana ha coinvolto l’Occidente repentinamente. Finora erano state proposte all’Onu bozze di risoluzioni contenenti sanzioni, non proposte di intervento armato internazionale. È solo nell’ultima settimana che l’ipotesi di un’azione militare è diventata concreta. In questa settimana non c’è ancora stato alcun dibattito all’Onu, né alcuna consultazione ai vertici della Nato, della Lega Araba o dell’Unione Europea, i quattro grandi attori sovranazionali coinvolti nel possibile conflitto. La crisi militare irachena, al contrario è iniziata subito dopo l’11 settembre 2001 ed è durata più di un anno, fino al marzo 2003. Nel frattempo sono stati coinvolti dagli Stati Uniti, con più o meno successo, tutti i forum della diplomazia internazionale.

Legittimazione internazionale: era stato rimproverato a Bush di aver condotto un’azione “unilaterale”, senza un chiaro mandato Onu, senza il consenso degli alleati della Nato, né una luce verde politica dall’Unione Europea. Bush aveva comunque, dalla sua, le risoluzioni 686, 687, 707 e 715, che imponevano all’Iraq la distruzione di armi chimiche e batteriologiche, l’apertura dei suoi confini ad ispezioni internazionali e il divieto di sviluppare un programma atomico. Rifiutando sistematicamente di aprire le porte agli ispettori, almeno dal 1998, Saddam era in aperta violazione di queste risoluzioni. Bush non ha creato un casus belli ad hoc, ha semplicemente deciso di implementare queste sanzioni con la forza, contrariamente ad altri Stati che hanno preferito non implementarle. Quanto a Nato e Ue, nella coalizione formata da Bush aderivano la maggioranza numerica dei loro membri. Si ricorda l’assenza della Francia e della Germania, che sono “pezzi da novanta”, ma si dimentica la partecipazione al conflitto di tutti gli altri alleati dell’Est europeo, della Spagna, del Portogallo, dell’Italia, dell’Olanda e della Danimarca. In questo possibile conflitto siriano, invece, non ci sono risoluzioni dell’Onu, né ad hoc né generiche, né vecchie né nuove. Non c’è un consenso della Nato. Al massimo gli Usa potrebbero formare una coalizione ad hoc molto più ridotta, che includerà, probabilmente, solo tre Paesi membri della Nato (Turchia, Gran Bretagna e Francia) e alcuni Paesi della Lega Araba. Si tratterebbe dunque, di un’azione molto più “unilaterale” da parte degli Stati Uniti.

Legittimazione interna: negli Stati Uniti il consenso per la guerra in Iraq era maggioritario, nonostante l’impressione fatta dalle imponenti manifestazioni pacifiste. Nel 2003, il 72% degli americani sosteneva l’intervento armato. Prima di muovere guerra il governo federale ottenne il consenso del Congresso, con un voto bipartisan. Attualmente il 60% degli americani pensa che non si dovrebbe intervenire in Siria. Il Congresso, neppure consultato prima di decidere la guerra in Libia, anche in questo caso non è neppure stato consultato. Almeno per ora.

Sicurezza nazionale: la guerra in Iraq venne lanciata neppure due anni dopo l’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, sulla base del fatto che Saddam Hussein appoggiava i terroristi islamici e iniziava ad accumulare armi chimiche e biologiche. Benché non siano state trovate prove che dimostrino il legame diretto fra Saddam e Al Qaeda e non siano state trovate armi chimiche, va ricordato che il dittatore iracheno era stato l’unico capo di Stato arabo a non condannare l’11 settembre e che la sua propaganda a favore del terrorismo islamico era martellante ed esplicita. Bashar Al Assad, in Siria, stava riaprendo normali relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti dal 2009, sotto gli auspici di Barack Obama. In Siria i terroristi islamici ci sono e sono molto numerosi: combattono nel Fronte Al Nusrah, contro Assad.

Armi chimiche: si continua a rimproverare a George W. Bush di aver scatenato in Iraq una guerra “inutile” perché le armi chimiche del dittatore iracheno, il casus belli più immediato, non furono mai trovate in Iraq. Tuttora non si sa se Saddam non le aveva mai avute (e in tal caso bluffò fino all’ultimo, considerando che ne minacciò l’uso fino alla fine della guerra) o fece a tempo a mandarle altrove, in una crisi che durò più di un anno. In ogni caso, fino a un mese prima della guerra, Saddam impedì con la forza ogni ispezione internazionale, rendendo impossibile qualunque verifica. L’uso di armi chimiche da parte di Assad, il potenziale casus belli per la Siria, è ancor meno verificabile. Di “prove” abbiamo solo qualche video delle Tv satellitari arabe. Almeno una delle immagini che abbiamo visto, quella dei bambini morti gassati, è stata successivamente rimessa in discussione da foto che ritraggono gli stessi bambini, già morti e tenuti sotto ghiaccio (conservati per una montatura televisiva?). Da un punto di vista logico, poi, un lancio di armi chimiche, da parte di un dittatore che già sotto tiro (e che aveva già gli ispettori Onu praticamente in casa), appare come una mossa talmente suicida da perdere di credibilità. Infine, ma non da ultimo, contrariamente a Saddam Hussein, Assad ha aperto le porte agli ispettori in meno di 48 ore, dimostrando di aver ben poco da nascondere.

Rischio internazionale: prima di attaccare l’Iraq, George W. Bush si era assicurato la neutralità delle altre grandi potenze regionali (Siria e Iran) e di quelle mondiali (Cina e Russia). Attaccando la Siria, Obama rischierebbe di trascinare nel conflitto l’Iran e potrebbe innervosire oltre ogni limite la Russia, che mantiene una base navale nel Paese.


di Stefano Magni