Gioie del centrismo, le riflessioni dell'Ajc

giovedì 11 luglio 2013


Viviamo in un mondo così fortemente polarizzato che, purtroppo, il centrismo, l’indipendenza, e anche le sfumature sono estranee a molti. Ci si ostina invece troppo spesso a creare false dicotomie tra liberali e conservatori, tra falchi e colombe, tra il “con noi o contro di noi”. Ma l’Ajc (American Jewish Committee) combatte con forza questo pensiero binario da lungo tempo - e da ben prima che la “triangolazione” di Bill Clinton o la “terza via” di Tony Blair entrassero nel vocabolario politico. Non siamo stati necessariamente dei visionari, ma semplicemente ci siamo accorti della complessità di alcune questioni che non potevano essere facilmente racchiuse all’interno di rigide categorie dottrinali. Prendiamo ad esempio il conflitto arabo-israeliano. Noi ci rifiutiamo ostinatamente di essere messi in quarantena in un angolino ideologico all'interno della comunità pro-Israele, di cui siamo tra i membri più fedeli, e questo ha portato a qualche episodio divertente, di cui uno proprio dei giorni scorsi.

Il 17 giugno, l’Ajc ha condannato la dichiarazione del ministro dell'Economia israeliano Naftali Bennett, che ha affermato che “il tentativo di stabilire uno stato palestinese nella nostra terra si è concluso”, invitando gli israeliani a “costruire, costruire, costruire” in Cisgiordania. Bennett è un pilastro del nuovo governo israeliano. Ma è anche in contrasto con il presidente del Consiglio, che ha sostenuto la visione di un accordo a due stati. E contraddice il capo negoziatore per i colloqui israelo-palestinesi e suo collega di governo, Tzipi Livni, che ha dichiarato all'inizio di questo mese all’Ajc Global Forum, che la visione è di “due stati per due popoli”. Noi crediamo in un governo israeliano democraticamente eletto che parli con una voce sola. E, soprattutto, per il bene di Israele, noi crediamo nel perseguimento di una pace duratura basata su due Stati, chiarendo comunque che “non ci facciamo alcuna illusione circa la difficoltà di raggiungere un accordo a due stati”. Così abbiamo scelto di parlare. Non era la prima volta, né è probabile che sia l'ultima volta, ma questa volta, per qualche motivo, è stato ampiamente notato. E sono arrivate voci da destra.

Un giornalista ha scritto che il nostro era “un atto di pura follia”. È arrivato a dire che la nostra affermazione “ha condannato un governo ebraico democraticamente eletto”. Per buona misura, ha aggiunto, “in un atto di ancora più pura follia, questa organizzazione (Ajc) che non rappresenta praticamente nessuno - a parte uno sparuto gruppo di liberali benestanti - dice che “Bennett va contro la visione del primo ministro Netanyahu…”. Inoltre, sostiene che il nostro compito sarebbe quello di “assalire le organizzazioni ebraiche che criticano il sostegno agli arabi palestinesi del Presidente Obama”. E, in ultimo, afferma di aver visitato il nostro sito web, “non trovando nessuno scritto sugli arabi, ma solo condanne agli ebrei”. Per non essere da meno, un suo collega ideologo ha scritto una mail pubblica sostenendo che stavamo creando un irreparabile “danno allo Stato ebraico, e mettendo in pericolo la sua stessa esistenza”. E poi ci sono arrivate le voci da sinistra. Prima l’affermazione che “questa non è certo la prima volta che l’Ajc ha rilasciato una dichiarazione critica, ma rimane un evento raro. L’ultima volta fu nel marzo 2011...”.

Poi è arrivata l’accusa che “di questi tempi, è più probabile che l’Ajc critichi il governo degli Stati Uniti per conto di Israele...”. Infine, siamo stati accusati di aver ignorato i commenti di qualche giorno prima del viceministro della Difesa, Danny Danon, che erano molto sulla falsariga di quelli di Bennett. L’autore ha poi chiesto retoricamente se l’Ajc avrebbe sfidato anche lui, rispondendo alla sua stessa domanda con un “lo dubito”. Nel frattempo, un altro editoriale che commentava positivamente la nostra dichiarazione a proposito di Bennett non è comunque riuscito ad evitare di aggiungere: “È bello vedere che hanno (l’Ajc) iniziato ad applicare lo stesso standard ai funzionari del governo israeliano”, che applicano ai funzionari di altri governi, le cui azioni vengono criticate dall’Ajc quando “mettono in pericolo il popolo ebraico o lo stato ebraico”. Ci viene da ridere. O da piangere. Mettiamo i fatti a disposizione di chiunque voglia occuparsene. Crediamo che ciò non accadrà, visto che sconvolgerebbe troppo lo zeitgeist, in cui le verità scomode sono troppo spesso ignorate, per non incrinare il proprio punto di vista accuratamente costruito.

Come potremmo “condannare un governo democraticamente eletto”, quando abbiamo dato il nostro sostegno al primo ministro quando è stato criticato da uno dei suoi stessi rappresentanti? E non è forse Netanyahu a sostenere un accordo a due stati, mentre è Bennett ad opporvisi? Per quanto riguarda il nostro punto di vista sull’amministrazione, lascio ai nostri critici di sinistra e di destra di combattere tra di loro, dal momento che uno ci vede come la nemesi e l’altro come l'ancella della Casa Bianca. Forse la nostra posizione è esattamente ciò che un gruppo non di parte dovrebbe fare - sostenere quando è il caso, criticare quando è necessario. E se non c’è niente sul sito dell’Ajc a proposito della campagna araba in corso contro Israele, allora a questo osservatore saranno sfuggite le centinaia, se non le migliaia, di trasmissioni radiofoniche nazionali, di blog (tra cui decine proprio sul sito del Jerusalem Post), gli editoriali, le lettere al direttore, le analisi, le campagne e le battaglie che combattiamo quotidianamente. Per quanto riguarda la sua immagine speculare di sinistra, altrettanto accecata, a quanto pare, da un’ideologia totalizzante, avrebbe potuto facilmente trovare il nostro comunicato stampa del 12 giugno che criticava le osservazioni dello stesso Danon a cui lei si riferisce. E avrebbe potuto trovare altre dichiarazioni che sostenevano più volte l’obiettivo di un accordo a due stati, anche dopo i discorsi del segretario di Stato John Kerry e il ministro della Giustizia Tzipi Livni all’inizio di questo mese presso l’Ajc Global Forum. Allo stesso modo, anche l’editorialista avrebbe potuto trovare le stesse cose, sfatando l’affermazione che avremmo solo ora “cominciato” ad esprimerci in proposito. In conclusione, tutto quello che posso dire è “caveat lector”. Il lettore faccia attenzione. E noi dell’Ajc continueremo con orgoglio ad uscire dagli schemi ideologici e a chiamare le cose col proprio nome.

(*) Direttore esecutivo dell’American Jewish Committee (www.ajc.org).


di David Harris (*)