Iran, riflessioni post-elettorali

sabato 6 luglio 2013


Alcuni osservatori, tra cui il “New York Times”, hanno esultato per il risultato delle recenti elezioni presidenziali in Iran che avrebbero portato al potere un “moderato”, Hassan Rouhani. Ci dicono che ciò potrebbe segnare l’inizio di una nuova Era nella politica iraniana. Può darsi, ma noi crediamo di no. Quando si tratta dell’Iran, è ingenuo consentire alla speranza di sostituire l’esperienza. Teniamo a mente tre fatti importanti. In primo luogo, per candidarsi alla presidenza, Rouhani è dovuto passare al vaglio ideologico della guida suprema Ali Hosseini Khamenei e del suo entourage. Tra decine di candidati, solo sei sono arrivati al ballottaggio. Questo ci dice qualcosa su chi sia veramente Rouhani. Se le sue posizioni si fossero discostate più di tanto da quelle del regime, gli sarebbe stato impedito di partecipare.

In effetti, potrebbe essere stato proprio il suo aspetto “moderato”, rispetto al suo predecessore Mahmoud Ahmadinejad, a sembrare così attraente per coloro che detengono le redini del potere. Dopo tutto, le buffonate di Ahmadinejad hanno reso particolarmente difficile anche per chi è più incline a minimizzare i comportamenti iraniani a farlo in maniera convincente. In secondo luogo, il presidente ha poteri limitati nel sistema iraniano. Khamenei ha il pieno potere. Pertanto, la capacità di Rouhani di introdurre un cambiamento, anche supponendo che volesse farlo, è fortemente circoscritto. A riguardo, è da notare l’impatto limitato che ebbe l’ultimo presidente iraniano moderato, Mohammad Khatami, che rimase in carica dal 1997 al 2005. E in terzo luogo, Rouhani è stato parte integrante del sistema iraniano post-1979, non è stato uno spirito ribelle. Tanto per fare un esempio, sarebbe stato presente nel 1993 al fatidico incontro del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale iraniano, del quale era segretario all’epoca in cui fu presa la decisione di bombardare l'edificio dell’Amia nel centro di Buenos Aires. Questo incontro è stato documentato dal procuratore argentino Alberto Nisman, che si è occupato del caso.

L’attacco vero e proprio avvenne nel luglio 1994. Ottantacinque persone morirono e centinaia furono ferite in uno dei più sanguinosi attentati in America Latina degli ultimi decenni. Guardando al futuro, se Rouhani vuole davvero contribuire a cambiare l’orientamento dell’Iran verso una direzione più pacifica, ci sono quattro punti da dove iniziare. È giunto il momento di porre fine al sostegno iraniano al terrorismo internazionale. Gruppi jihadisti come Hezbollah, che operano in Europa, Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente, sarebbero seriamente indeboliti senza le armi, la formazione, e i finanziamenti iraniani. E quasi 20 anni dopo il bombardamento Amia in Argentina, l’Iran dovrebbe ammettere il proprio coinvolgimento nell'attacco e consegnare quei funzionari, tra cui l'attuale ministro della difesa, ricercati dall’Interpol e dalle autorità argentine. L’Iran continua a sostenere il regime assassino di Assad in Siria. Più di 90mila persone sono state uccise in una guerra civile giunta ormai al terzo anno. L’Iran gioca un ruolo chiave: l’Iran di Rouhani smetterà di essere continuamente coinvolta in crimini contro l'umanità? L’Iran è noto per il mancato rispetto dei diritti umani.

Non solo le elezioni presidenziali sono perversioni della democrazia, visto che solo i candidati approvati dall’alto possono parteciparvi, ma rispettate Ong per i diritti umani hanno catalogato una lunga serie di violazioni delle libertà fondamentali. Immaginiamo cosa possa voler dire oggi in Iran essere baha'i, o una leader femminista, o un attivista gay, o uno studente che partecipa a manifestazioni, o un giornalista investigativo. Inoltre l’Iran applica la pena di morte in maniera indiscriminata, addirittura, come è stato documentato, sui bambini. E se Rouhani cerca migliori relazioni con il mondo, allora l’Iran deve terminare il suo programma militare nucleare, così come gli è stato più volte richiesto dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dall’International Atomic Energy Agency. Per anni, l'Iran da un lato ha preso in giro i negoziatori europei e americani che cercavano un accordo sul suo programma nucleare, mentre dall’altro continuava a sviluppare ulteriormente il programma. Rouhani stesso era parte di quel processo, arrivando a vantarsi a proposito della sua capacità di avere la meglio sui diplomatici occidentali. È cambiato? Se è così, questo è un buon posto per dimostrarlo. La storia del secolo scorso ci mostra in maniera dolorosa l’infinita capacità di alcuni politici ed esperti di sicurezza occidentali ad ingannare se stessi, con risultati devastanti. La posta in gioco con l'Iran non potrebbe essere più alta. Ci vogliono fatti tangibili per misurare il cambiamento reale del paese. In caso contrario, continueremmo pericolosamente a rincorrere una illusione.

(*) David Harris è direttore esecutivo dell’American Jewish Committee


di David Harris (*)