Egitto, perché Morsi è il nuovo Mubarak

giovedì 4 luglio 2013


In un appassionato discorso televisivo, il presidente egiziano Mohammed Morsi, si è detto pronto a “sacrificare il suo sangue” per salvare l’Egitto, la sua rivoluzione e la sua Costituzione. Intanto il tempo per rispondere all’ultimatum dell’esercito stava scadendo e milioni di persone, raccolte dall’opposizione Tamarod in piazza Tahrir, chiedevano la sua testa. Una gigantesca scritta al laser “Game Over”, ormai motto di tutte le rivoluzioni arabe (da quella tunisina in avanti) compariva sulla facciata della sede della burocrazia egiziana. Il presidente Morsi sa di non essere isolato. Il partito Libertà e Giustizia è rimasto fedele.

I suoi militanti sono scesi in piazza in difesa del presidente, si dicono pronti a fare da “scudi umani” per difendere il loro governo, faticosamente conquistato dopo decenni di opposizione e persecuzioni. È praticamente da escludere che un golpe militare possa porre fine al potere di Morsi senza colpo ferire. L’esito più probabile di questa crisi, se si dovesse arrivare a una resa dei conti finale, è quello di una prolungata serie di scontri. L’esercito egiziano non ha affatto una tradizione di colpi di Stato: il potere statale è rimasto nelle loro mani dal 1952 al 2011. Durante la rivoluzione contro Mubarak le forze armate sono rimaste neutrali, poi hanno esercitato una pressione solo politica sul presidente per indurlo a lasciare il potere. L’attuale generale Abdel Fatteh el Sisi, paradossalmente, è un uomo scelto e apprezzato da Morsi.

Islamico, con una moglie osservante che indossa il niqab, è stato il primo alto ufficiale ad approvare l’accesso dei Fratelli Musulmani anche nell’accademia militare, per formare nuovi ufficiali non laici. Ma in una situazione in cui Morsi ha deluso la maggioranza degli egiziani, non è da escludere una pugnalata alle spalle dell’ex protettore politico. Le cose cambiano. In attesa di vedere come andrà a finire questa crisi politica, occorre capire come mai Morsi, dopo essere stato votato dalla maggioranza assoluta degli egiziani, sia ora diventato il nuovo Mubarak. Molto semplicemente: ha governato. Alle prese con la più grave crisi economica del Paese dal 1929, è ricorso a misure drastiche per riuscire ad ottenere prestiti vitali dal Fondo Monetario Internazionale e dagli Stati Uniti. A febbraio ha dato un giro di vite ai sussidi, provocando un rialzo dei prezzi del carburante (+50%) e di conseguenza anche di tutti gli altri beni primari. In alcuni settori, come l’edilizia, si assiste a un incremento dei prezzi anche del 75% sul cemento e i mattoni. In compenso, a causa delle continue turbolenze politiche e del collasso dell’ordine pubblico, il turismo è crollato e si è assistito alla fuga dei capitali stranieri (60% in meno nelle riserve valutarie estere).

I Fratelli Musulmani avevano conquistato un consenso così universale in Egitto, oltre che per la loro immagine di “purezza” religiosa e di incorruttibilità, anche e soprattutto per la loro capacità di gestire un welfare state parallelo. Compensavano l’inefficienza e la corruzione delle autorità statali, divenendo il “partito dalla parte dei poveri”. Veder aumentare la popolazione sotto la soglia di povertà, proprio durante il governo dei Fratelli Musulmani, è stata una brutta sorpresa per la stragrande maggioranza degli egiziani. Da un punto di vista politico, Mohammed Morsi aveva vinto le elezioni dopo essersi alleato con tutti i movimenti rivoluzionari, compresi i laici, i democratici e i copti, ai quali aveva promesso protezione dalle violenze religiose. Agli altri movimenti Morsi aveva promesso un governo di unità nazionale, con una donna e un copto nella veste di vicepresidenti, una Costituzione scritta con la partecipazione di tutti i partiti. Non appena ha vinto le elezioni, il presidente di Libertà e Giustizia ha disatteso tutte le promesse. Ha costituito un governo mono-colore, non ha nominato né una donna, né un copto nel suo esecutivo.

Nel potere legislativo, ha creato una maggioranza costituente costituita dai soli Fratelli Musulmani e dai Salafiti, ancora più fondamentalisti e nemici dichiarati della rivoluzione democratica (a cui non hanno neppure preso parte nel 2011). In politica estera, Morsi ha deluso sia i nasseriani nazionalisti che gli islamici, chiudendo il valico di Rafah con Gaza, non intervenendo (neppure a parole) al fianco di Hamas durante la sua ultima guerra con Israele, ma giocando il tradizionale ruolo di mediatore esattamente come Mubarak. Rinnovando l’alleanza con gli Usa (da cui ha ottenuto una nuova consegna di caccia F-16), non ha cambiato la politica estera del suo predecessore. Salvo pericolose aperture all’Iran sciita, che non hanno aumentato i consensi fra i suoi cittadini sunniti, ma in compenso hanno suscitato non poche preoccupazioni negli americani. Ora come ora, Morsi non piace più a nessun gruppo. Salvo i suoi fedeli militanti di partito, pronti a dare la vita per difendere il presidente. E il loro stesso potere.


di Stefano Magni