Cosa guadagna Londra dall’Ue?

martedì 21 maggio 2013


La possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea sta dividendo i conservatori al loro interno. Il successo dell’Ukip, partito dichiaratamente euroscettico che ha fatto il pieno di voti nelle ultime elezioni locali, ha fatto chiaramente da innesco alle polemiche. E un gruppo di influenti imprenditori e manager britannici ha scritto una lettera al governo, pregandolo di restare nell’Unione. All’interno del partito Tory è in corso una vera e propria rivolta dei “backbenchers”, i politici di secondo rango, che vogliono una linea più dura. Lord Howe, ex ministro degli Esteri conservatore, ritiene che il premier David Cameron abbia sbagliato ad «aprire il vaso di Pandora» dell’euroscetticismo, promettendo il referendum per restare o andarsene dall’Ue nel 2017.

La strategia di Cameron consisteva nel prender tempo, rinegoziare la posizione britannica e poi sottoporre il quesito fondamentale ai cittadini, sperando che, alle nuove condizioni, questi decidano a gran maggioranza di rimanere nell’Ue. Invece sta creando un effetto a catena che può portare il Partito Tory sulle stesse posizioni dell’Ukip: uscire subito e senza tentennamenti. Se il referendum si deve fare, dicono gli euroscettici, si faccia subito. Il risultato è che Cameron si trova fra l’incudine e il martello: troppo europeista per piacere ai conservatori duri e puri, troppo anti-Ue per essere accettato di buon grado dai moderati e dall’élite finanziaria di Londra. Proprio quest’ultima, nella lettera aperta (firmata da 19 alti esponenti di BT, Shell, Lloyds Banking Group, Deloitte, Centrica e Virgin Group fra gli altri) pubblicata sul quotidiano The Independent, preme per restare in quello che è il primo mercato di sbocco del Regno Unito. Secondo le loro stime, un’uscita della Gran Bretagna comporterebbe la perdita di un volume d’affari pari a 92 miliardi di sterline (109 miliardi di euro) all’anno. Tuttavia, gli stessi 19 firmatari della lettera aperta sostengono che Cameron debba “proteggere gli interessi della City di Londra” da eventuali crescenti ingerenze europee.

«Quel che dovremmo fare – dicono – è continuare a combattere duramente per avere un’Europa più competitiva, al fine di battere le critiche di coloro che sostengono la nostra uscita. Noi dovremmo premere per rafforzare e approfondire il mercato unico, perché includa anche (il libero scambio dei, ndr) servizi digitali, energetici, di trasporto e telecomunicazione, cosa che spingerebbe il Pil britannico a una crescita di 110 miliardi di sterline». E qui si può trovare una prima grave contraddizione con la realtà. Perché l’Ue non sta affatto procedendo sulla via di una maggiore liberalizzazione dei servizi, né su quella di una più ampia libertà di circolazione dei capitali. La tendenza è proprio quella opposta: i Paesi membri dell’Europa occidentale e continentale, chiedono sempre maggior protezionismo per se stessi e un maggior controllo centralizzato dell’economia. Sul primo punto, la tendenza era già evidente in tempi non sospetti, quando la crisi economica non c’era ancora: la direttiva Bolkestein (liberalizzazione dei servizi e delle professioni), nel 2006 è stata annacquata sin quasi a scomparire.

In compenso è evidente un forte processo di centralizzazione. L’esempio più lampante è il patto di stabilità finanziaria (che la Gran Bretagna non ha accettato), che include misure di controllo centralizzato sui bilanci dei singoli Stati membri. Un altro esempio molto chiaro è il Mes, il fondo salva-Stati, anche questo respinto dalla Gran Bretagna. Gli “euroscettici” italiani lamentano che le condizioni per ottenere un prestito dal Mes siano troppo dure e che questo costituisca una “violazione di sovranità” (forse perché si vorrebbero aiuti gratis e senza condizioni). Ma per Londra sarebbe il problema opposto: pagare per gli errori altrui con i soldi dei propri contribuenti. Quanto alle prospettive, la spesa per gli Stati contributori è destinata a crescere e non diminuire. Se il partito della Merkel dovesse cedere sotto le pressioni di François Hollande e della cordata di governi mediterranei (fra cui quello italiano), tutti che si affannano a chiedere la “fine dell’austerity”, la Gran Bretagna dovrebbe pagare per sostenere i nostri cassintegrati? O per rilanciare sistemi economici statali falliti in mezzo Mediterraneo? Margaret Thatcher aveva rilanciato l’economia britannica facendo essenzialmente quattro riforme: lotta all’inflazione, ridimensionamento dei sindacati, privatizzazione le aziende di Stato, liberalizzazione e deregolamentazione.

L’Europa di oggi procede in senso diametralmente opposto. Sotto la spinta della maggioranza dei governi, la Banca Centrale Europea può inflazionare l’euro. I sindacati, attraverso i partiti socialdemocratici continentali, vogliono un patto sindacale europeo. La Spd tedesca si fa portavoce di questa battaglia. I governi mediterranei e la Francia vogliono “rilanciare la crescita” tramite una maggior spesa pubblica, proprio per non privatizzare le aziende di Stato. Quanto alla liberalizzazione e alla deregolamentazione, l’introduzione di nuovi meccanismi quali la “Tobin Tax” fa capire che Bruxelles sia dell’idea di tassare e regolamentare ancor di più la finanza, forse nell’illusione di poter evitare altre crisi. L’Europa della crisi è questa, inutile sfuggire alla realtà. “Battersi” per un’Europa più competitiva sembra, a questo punto, una lotta contro i mulini a vento. La Gran Bretagna dovrà uscirne per salvare gli interessi della City. O dovrà restarci, sacrificandoli. Gli autori della lettera aperta, insomma, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca. Cameron deve decidere se dare ascolto a loro, o far quattro conti, assieme alla base del suo partito, e chiedere il parere, con un referendum, ai sudditi di Sua Maestà.


di Stefano Magni