Bengasi, le prove di un insabbiamento

sabato 11 maggio 2013


Il Dipartimento di Stato ha veramente occultato o distorto le informazioni necessarie a capire cosa successe l’11 settembre 2012 a Bengasi? Altri elementi stanno confermando l’accusa che i Repubblicani muovono all’ex segretaria di Stato Hillary Clinton, e alla burocrazia del ministero degli esteri americano. A svelarli, questa volta, non è la Fox News o Newsmax, o la National Review, media dichiaratamente conservatori, ma la Abc News, che pende decisamente dalla parte dei Democratici. Un servizio della storica televisione americana rivela, infatti, che il Dipartimento di Stato abbia apportato ben 12 “correzioni” al rapporto ricevuto dalla Cia. Perché questa rivelazione potrebbe risultare fondamentale? Perché permette di stabilire precise responsabilità.

L’11 settembre 2012 è stato ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi, Libia. Nelle due settimane successive (si era nel rush finale della campagna elettorale), la versione ufficiale del Dipartimento di Stato e dello stesso presidente Barack Obama, era quella della ribellione spontanea. Causata da un video amatoriale su Maometto, poco visibile persino su YouTube, ma subito scoperto dai leader islamici. Il consolato statunitense di Bengasi, insomma, sarebbe stato travolto da un evento totalmente imprevedibile. Il governo libico ha puntato subito il dito su Al Qaeda, ma Obama non ha dato seguito. L’ambasciatrice all’Onu, Susan Rice, ha dichiarato pubblicamente che quello di Bengasi era un incidente, originato da un video su Maometto, ritenuto blasfemo. Il presidente ci ha messo due settimane per ammettere che, quello di Bengasi, era un attacco terroristico a tutti gli effetti. Ma a questo punto, perché si era parlato del video su Maometto e della rivolta “spontanea”? «Le informazioni di intelligence evolvono» è stata la risposta di Obama nel suo dibattito televisivo sulla politica estera con Mitt Romney.

La Casa Bianca ha spiegato che quelle di Susan Rice e di tutti gli altri membri dell’amministrazione, fossero affermazioni basate sul rapporto ricevuto dalle agenzie di intelligence. Di conseguenza, la colpa è stata scaricata sulla Cia, rea di aver mandato un rapporto sbagliato. Per caso, o conseguentemente a questo episodio, subito dopo le elezioni, l’ex direttore della Cia, il generale David Petraeus ha dovuto rassegnare le dimissioni per uno scandalo extraconiugale. A dicembre, un’inchiesta sul caso Bengasi si è conclusa con un’assoluzione quasi piena del Dipartimento di Stato. Fine della storia? In realtà è solo l’inizio. Perché la Cia di Petraeus, a quanto risulta, aveva fatto bene il suo dovere. È stato proprio il Dipartimento di Stato ad aver distorto il rapporto dopo gli eventi dell’11 settembre 2012. Sono stati sistematicamente cancellati tutti i riferimenti ad Al Qaeda, al gruppo terrorista Ansar al Sharia e agli avvertimenti lanciati dalla Cia prima dell’11 settembre, sul pericolo che la missione diplomatica statunitense stava correndo. Già mesi prima dell’attacco. Jay Carney, portavoce della Casa Bianca, aveva dichiarato testuali parole: «Questo rapporto viene dalla comunità delle agenzie di intelligence. Riflette quel che l’intelligence pensa su quanto sia accaduto, al meglio delle sue possibilità». Alla domanda dei giornalisti se il Dipartimento di Stato avesse messo lo zampino su quel rapporto, Carney, in conferenza stampa, il 28 novembre 2012, aveva risposto: «La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno chiarito che l’unica correzione apportata al rapporto, da entrambe le istituzioni, è consistita nel cambiamento della parola “consolato” con “sede diplomatica”, perché il termine “consolato” non era corretto».

Invece, secondo quanto rivela la Abc, oltre alla parola “consolato”, su esplicita richiesta della portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, è stato rimosso un intero passaggio del rapporto. Che documentava tutti i prodromi dell’attacco terroristico. «L’Agenzia (la Cia, ndr) ha prodotto numerosi elementi di prova sulla minaccia di estremisti legati ad Al Qaeda a Bengasi e nella Libia orientale. Notava il fatto che, sin dal mese di aprile, erano avvenuti almeno altri cinque attacchi contro interessi stranieri a Bengasi da assalitori non identificati, compresa un’aggressione, avvenuta a giugno, contro il convoglio dell’ambasciatore britannico. Non possiamo escludere che individui, che già da tempo sorvegliavano le sedi diplomatiche statunitensi, abbiano contribuito alla riuscita degli attacchi». In uno scambio di email fra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca, risulta che la Nuland abbia anche esplicitamente scritto di rimuovere questo paragrafo, perché «Potrebbe essere oggetto di un abuso da parte di membri (del Congresso, ndr) per colpire il Dipartimento di Stato, accusandolo di non aver prestato attenzione agli allarmi. Perché dovremmo alimentare anche noi queste voci?». La Nuland avrebbe anche espressamente chiesto di rimuovere i riferimenti a precisi gruppi terroristi, perché «Non vogliamo pregiudicare l’investigazione del Congresso». Insabbiamento? Sembrerebbe proprio di sì, considerando anche quanto ha testimoniato Gregory Hicks (il numero due della missione diplomatica statunitense in Libia), di fronte alla Camera.

Sia lui che gli altri testimoni, affermano di aver subito pressioni, mobbing e intimidazioni, perché non parlassero di quanto era avvenuto in Libia. La notte dell’attacco era stato personalmente contattato ed elogiato sia dalla segretaria di Stato Hillary Clinton, sia dallo stesso presidente Barack Obama. Ma nel momento in cui ha criticato la versione ufficiale degli eventi, negando che fosse un video su YouTube ad aver scatenato l’inferno, Hicks afferma di essere stato subito ripreso dalla sottosegretaria agli Affari per il Medio Oriente, Beth Jones, che ha messo in dubbio la sua “capacità di gestione” e lo ha avvertito che nessuno, al Dipartimento di Stato, avrebbe più voluto mandarlo sul campo. Successivamente è stato destinato a un lavoro d’ufficio. Gregory Hicks afferma, inoltre, di essere stato intervistato dalla commissione di inchiesta sugli eventi di Bengasi (quella che poi ha assolto il Dipartimento di Stato) e che in quell’occasione, nessuno stenografo fosse nella sua stanza durante le sue due ore di deposizione. In compenso c’era un avvocato. Ed era la prima volta in tutta la sua carriera che, in una circostanza simile, Gregory Hicks ne vedeva uno. Mark Thompson, un altro dei testimoni sentiti alla Camera, ha dichiarato di non essere neppure stato consultato dalla commissione di inchiesta, benché fosse membro della squadra di risposta rapida in Libia. Avrebbe potuto (e voluto) parlare del fatto che la squadra di risposta rapida era pronta a intervenire durante l’assalto al consolato. Ma ha ricevuto l’ordine di non farlo.


di Stefano Magni