«Perché l'Italia interessa al mondo»

venerdì 10 maggio 2013


L’Italian Business & Investment Initiative è un progetto che da un paio di anni, a dispetto di quanto male il nostro amato Paese si possa fare, si batte per raccontare l’Italia migliore, per sostenere i nostri meriti, per dare - a chi si deprime pensando di essere italiano – un punto di vista diverso, motivato, volenteroso. Non sorprende che sia un progetto che agisce di sponda tra Italia e Stati Uniti. A guidarlo c’è un manager italiano di successo, caparbio e carismatico, che il caso vuole abbia lo stesso cognome del nostro Presidente della Repubblica. Si chiama Fernando Napolitano, è concreto e dinamico, ha le idee chiarissime su pregi e difetti del nostro Paese, e crede che il modello americano possa esserci d’aiuto. Era d’obbligo chiedergli di far parte dei nostri ospiti, e noi lo ringraziamo per ciò, e per la spinta di energia propulsiva e positiva che emana anche solo parlandoci. Lo incontriamo all’Harvard Club a New York, e ci dice cose che vorremmo tanto sentir dire più spesso anche in Italia.

Dott. Napolitano, lei è un manager italiano di successo che ora opera per promuovere il nostro Paese facendo base a New York. Qual è il suo rapporto con gli USA e da quanti anni è operativo nella grande mela?

Il mio rapporto con gli Stati Uniti nasce sia da motivi di lavoro che familiari. Io ho lavorato per venti anni in Booz Allen Hamilton, dopo aver studiato qui in America per il post-lauream; mio padre fu un Fulbright student negli anni ’50, scienziato dell’aerospazio ha insegnato anche negli USA. Quindi per me l’America è certamente un posto in cui mi sento a casa di amici.

Avendo studiato qui, ha acquisito la mentalità americana?

Io innanzitutto ho acquisito la mentalità napoletana. Ho studiato fino alla laurea a Napoli, dove ho anche giocato a pallanuoto da professionista: ho avuto quindi l’assoluto privilegio di essere cresciuto in una città meravigliosa e anche molto sfidante, che mi ha forgiato tra la cura dell’intelletto, l’amore per la scienza, la passione e la lealtà dello sport agonistico, e il fascino delle sue variegate fasce sociali. Io a Napoli ho imparato a lavorare duro e ad avere un forte senso etico: questo mi ha permesso di fare quello che ho fatto, in primis di entrare alla Brooklyn Polytechnic University e successivamente alla Harvard Business School, e riuscire a capire italiani e americani. Sono due popoli meravigliosi e complessi che ragionano in maniera molto diversa e ancora oggi presumono di capirsi e conoscersi a vicenda ma non sempre lo fanno veramente. Lo dimostra, ad esempio, il business relativamente basso che fa l’Italia qui negli Stati Uniti, nonostante lo straordinario franchise del brand Italia: facciamo 30 miliardi di dollari all’anno, la Germania ne fa 90.

Lei è il fondatore dell’Italian Business & Investment Initiative. Qual è la vostra mission, e come operate? Quali sono i vostri partner?

L’Italian Business & Investment Initiative nasce nel 2010 come una risposta allo stato di crisi del Paese. In un momento straordinario, di profonda crisi, abbiamo compreso che il compito della classe dirigente di un Paese è quello di inventarsi qualcosa di altrettanto fuori dagli schemi e vincente. L’idea era e rimane quella di fare tre cose. La prima è quella di rappresentare il proprio Paese avendo un curriculum competitivo e rispettato dalla comunità di affari americana, illustrandone le opportunità e non solo i problemi. La seconda è quella di creare una piattaforma dove startup e medie imprese possono incontrare investitori americani. La terza, che abbiamo realizzato con Mondadori e Panorama con il progetto “This is Italy”, è quella di cominciare a spezzare l’isolazionismo italiano: noi siamo l’unico Paese industrializzato che non ha alcun organo di informazione dall’Italia in lingua inglese concepito per il mondo anglosassone. Il concerto di questi tre programmi ci consente di far apprezzare il tag line dell’iniziativa: “Why Italy Matters to the World” Per raggiungere questi tre obiettivi ci sono state di grande aiuto le più grandi aziende italiane ma anche operatori Usa che hanno creduto in questa sfida. In due anni abbiamo presentato 60 aziende, prevalentemente startup, comprese le ultime venute all’evento dello scorso 2 maggio; sono stati investiti in queste aziende da parte di investitori Usa 5 milioni di dollari oltre a quelli già investiti dai fondi Atlante Ventures, Vertis e Innogest insieme a Intesa Sanpaolo; abbiamo avuto l’opportunità di creare una solida partnership con una realtà come Mind the Bridge, con la quale abbiamo supportato la creazione di un nuovo fondo di 7 milioni di dollari (dove io stesso ho investito perché credo nell’iniziativa e nella bravura di Marco Marinucci) dedicato alle startup italiane e del sud Europa, proprio perché se vogliamo fare la differenza dobbiamo creare massa critica, e quindi prossimamente avremo con noi anche Italia Camp; abbiamo promosso in molti luoghi l’innovazione italiana, tra la New York University e l’Harvard Business School solo per citarne due; infine, lo scorso febbraio abbiamo lanciato il primo summit dedicato all’Italia, chiamato Italy meets the United States of America, che ha visto qui a New York insieme il Presidente Giuliano Amato, Vittorio Grilli, l’Ambasciatore americano a Roma Thorne e gli Amministratori Delegati di Alitalia, Enel, ENI e WIND che rappresentano quasi il 15% del PIL italiano. E’ la prima volta nella storia del nostro Paese che avviene una cosa simile, noi la ripeteremo ogni anno. A riprova, abbiamo avuto l’endorsment sia del Presidente Giorgio Napolitano che del Sindaco di New York Michael Bloomberg.

Voi riuscite, sia da Roma con il programma Fulbright Best sia da New York con IB&II, a integrare in un continuo e proficuo dibattito la freschezza del mondo delle piccole e medie imprese e dell’innovazione imprenditoriale italiana, con l’esperienza dei principali players della nostra politica e delle nostre grandi aziende nazionali. Che metodo usate?

Il nostro maggiore risultato, al di là dei numeri che comunque ci confortano, è che abbiamo creato un ecosistema, funzionante, formato da due blocchi fondamentali. Il primo blocco è quello dato dalla borsa di studio Fulbright Best: una borsa di studio ideata dal precedente Ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli e portata poi avanti dall’attuale Ambasciatore David Thorne. La commissione Fulbright seleziona giovani laureati italiani in ingegneria, economia o altre materie scientifiche con una idea high-tech che vogliano trasformare in un nuovo business. La borsa consiste in un soggiorno diotto mesi in America dove i ragazzi studiano imprenditorialità e poi imparano come fare impresa lavorando in una start-up di Silicon Valley. Al loro rientro in Italia li aiutiamo a creare aziende: dei 60 ragazzi inviati negli ultimi 5 anni ben 26 hanno creato un’azienda. Questo programma non sarebbe possibile senza il supporto del nostro Consolato Generale di San Francisco, di Mind the Bridge, BAIA Business Italian American Association e SVIEC Silicon Valley Italian Executive Council. Dietro le sigle esiste un gruppo di leader italiani a San Francisco che lavorano con lo stesso obiettivo. La vera sfida è in Italia. Ad oggi, solo la Toscana e l’Emilia Romagna sponsorizzano l’iniziativa mediante il Fondo Sociale Europeo. Non c’è alcun motivo per cui non lo debbano fare anche le altre Regioni: se ognuna mandasse 20 ragazzi all’anno, noi in tre anni avremmo cambiato una generazione. Ogni Regione può attingere da questi fondi, che altrimenti non utilizza (o utilizza parzialmente) e che non vengono dal proprio bilancio istituzionale, e affidarli a progetti presentati dalla Fulbright che, in qualità di agenzia governativa, consente una transazione semplice tra istituzioni. Ogni borsa di studio costa (ripeto, non alle istituzioni italiane, sono fondi comunitari a disposizione) 37.000 €. Come per Toscana e Emilia, ogni Regione avrebbe un valore aggiunto in termini di ricaduta sul proprio territorio di aziende high-tech. L’unico vincolo, infatti, è che queste borse possono essere destinate a studenti di Università che hanno sede nella regione stessa. Questo primo blocco risolve il problema atavico del technology transfer, della creazione di impresa, del rapporto tra Università e aziende: dello iato tra il momento in cui ci si laurea e il momento in cui si dà vita nella maniera corretta ad un’impresa. Il secondo blocco è quello di poter dire alle migliori aziende nate anche da questo processo di conquistare il mercato Usa ai fini commerciali e finanziari: non quindi per esportare cervelli, ma per esportare il know how e fornire opzioni di exit strategy per gli investitori. In questo secondo blocco c’è il lavoro di Mind the Bridge, Innogest, Vertis, Atlante e Intesa Start Up Initiative. Solo le migliori vengono invitate a presentarsi agli investitori di San Francisco e di New York. E’ un bene che oggi in Italia si parli tanto di start up. Bisogna però anche cominciare a parlare di ritorno per gli investitori di questa start up. E’ necessario che questi abbiamo ritorni molto soddisfacenti sul loro investimento. Solo questo assicura l’innescarsi di un ciclo virtuoso. Per raggiugere questo obiettivo è necessario avere più opzioni di exit strategy e queste le possono fornire solo gli Stati Uniti. Siamo convinti che per ritornare ad attrarre investimenti esteri in Italia, ci sia bisogno di una fase come quella che noi svolgiamo, in cui si mostrano le eccellenze italiane parlando la lingua del mercato americano per iniziare a recuperare credibilità e quindi attrattività innescando un circolo virtuoso. Per farlo si coniuga il meglio dei due mondi: una startup può avere qui in America il braccio commerciale e finanziario - per impattare in maniera ideale sul mercato ideale - e mantenere lo sviluppo e la ricerca in Italia dove ci sono ingegneri qualificati, meno costosi e in numero sufficiente, a differenza degli Stati Uniti.

Come fa Fabrizio Capobianco in California …

Esatto, l’esempio più chiaro e vincente del successo di questo meccanismo è proprio Fabrizio Capobianco con Funambol: è il risultato concreto che spezza le chiacchiere o i grandi programmi che spesso si fanno in Italia, ma che poi rimangono su quel piano: qui si parla di fatti, di risultati ottenuti, che coinvolgono pezzi di successo del nostro Paese. Per farlo, però, non possono mancare tre componenti essenziali, ed è bene che anche in Italia lo si capisca: il rischio, l’energia, la credibilità. Si traducono nel fatto che è il privato, e solo il privato, che può fare da motore di questa iniziativa: la velocità, la dedizione, la flessibilità che servono per portare avanti progetti ambiziosi grazie a capitali di investimento sono incompatibili con le strutture pubbliche e i loro processi. In America, se anche per assurdo si potesse fare con capitali e strutture pubbliche quello che noi stiamo facendo e abbiamo fatto con il rischio e l’investimento privato, il nostro progetto perderebbe il 90% della credibilità presso gli investitori ai quali ci rivolgiamo. L’America è il Paese di Mission Impossible, dove si sfidano le convenzioni: è quello che facemmo nel 2010, quando l’immagine dell’Italia qui e nel mondo era molto compromessa.

Il vostro è un modello che funziona anche grazie alla stretta collaborazione col mondo americano, sia qui che lì. E’ esportabile anche in altri Paesi?

Noi abbiamo iniziato da qui perché questo rimane il più grande mercato del mondo. E’ anche il Paese che detiene il più imponente volano di innovazione; è quello col più grande esercito del mondo, e tutti sanno che molto spesso le innovazioni nascono dal mondo militare per poi arrivare a quello civile; è il Paese con i migliori sistemi di trasformazione delle idee in impresa. Noi italiani, per una serie di motivi, dalla caduta del muro di Berlino questi storici legami con l’America li abbiamo - sotto alcuni punti di vista - un pochino allentati: ma i nostri giovani qualificati, la nostra forza trainante che è la piccola e media impresa, trovano un naturale sbocco nel mercato americano, con la flessibilità dei suoi strumenti finanziari. Il meccanismo dei Venture Capital è stato sconosciuto a lungo in Italia, ma noi rivolgendoci agli Stati Uniti non facciamo che emulare un caso di successo, che è Israele. Mutatis mutandis, l’Italia è come Israele: entrambi i paesi sono isolati, anche se per differenti motivi. Noi siamo un Paese isolato nella nostra lingua, che non parla al resto del mondo. Stiamo, certamente, nella più grande area economica del mondo, l’Europa: ma andarci per una start up ma anche per le piccole aziende italiane è complicato, costoso, e mancano strumenti di flessibilità finanziaria. L’esempio di Israele ci insegna che è possibile. La maggioranza delle società quotate al Nasdaq è israeliana. Noi cerchiamo di emulare, sfruttando il plus dell’italianità, il modello israeliano. Quando avremo consolidato bene i fondamentali della nostra iniziativa – aumentando il numero di studenti con la Fulbright Best, elevando il numero di medie aziende che partecipano ai nostri progetti al fine di aumentare gli scambi commerciali con gli USA, aumentando la portata di un piccolo progetto web come “This is Italy” sviluppato con Panorama, trasformandolo in uno strumento comunicativo di più ampio respiro - allora avremo generato sufficiente ricchezza per poter pensare di esportare altrove questo modello.

Recentemente è uscito un bel libro di Maria Teresa Cometto e Alessandro Piol, “Tech and the city”, che descrive molto bene l’effervescente scena delle start up tecnologiche a New York. Anche voi siete di base a Manhattan. Si tratta ormai della Silicon Valley della costa est? Quali differenze ci sono secondo lei con il mondo tecnologico dell’altra costa?

Numeri alla mano, credo che New York sia diventato il secondo hub di Venture Capital negli Stati Uniti, scalzando Boston. In America il mercato è maturo al punto che mal sopporta i monopoli: così, in Silicon Valley il sistema è talmente efficiente e competitivo da aver prodotto involontariamente alte barriere all’entrata, e non potendo “digerire” tutto, si è finiti per scartare o allontanare progetti e persone vincenti che hanno trovato a New York un ambiente fecondo. D’altronde, il sindaco uscente di New York Michael Bloomberg ha messo in atto una politica completamente favorevole alle startup innovative nel campo digitale e non solo, che sta dando eccellenti risultati. Il libro di Maria Teresa Cometto e Alessandro Piol descrive in effetti molto bene la scena newyorchese e va nella stessa direzione in cui andiamo noi, e infatti li ringrazio perché citano anche IB&II.

Per concludere, come vede il futuro del nostro meraviglioso, problematico Paese?

Guardi, la prima cosa secondo me è che noi dobbiamo smettere di parlare male del nostro Paese e spesso senza ragione. L’immagine che proiettiamo all’estero è peggiore della realtà. Sappiamo che esistono personaggi che sulla sciagura e il vituperio dell’Italia hanno creato la propria fortuna e, ahimè, apprezzata immagine. Noi abbiamo cominciato a contrastarli. Il più grande valore aggiunto di quello che ho illustrato sinora è che è scalabile, caratteristica fondamentale per avere un impatto di sistema “be a positive actor of change” come dicono gli americani. Nell’ordine: possiamo inviare con Fulbright Best, 1.000 ragazzi in tre anni. Possiamo presentare centinaia di aziende italiane agli investitori. Da “This is Italy” possiamo creare una piattaforma multimediale che consenta, finalmente, all’Italia di partecipare al dialogo su se stessa. L’occasione annuale è la nostra Davos a New York con il summit “Italy Meets the United States of America”. Con tutto il rispetto, non è giusto, dati corretti alla mano, essere tra i PIGS. Noi abbiamo migliori fondamentali del Regno Unito! Noi abbiamo un tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese straordinario, che non ha paragoni in Europa. Oltre a ciò, ci sono grandi aziende che fanno cose eccellenti: innovando nelle filiere tecnologiche del futuro, come ENI ed ENEL; o dando un esempio di management vincente, come Luxottica. Qualche settimana fa io ho partecipato qui a New York ad un media forum organizzato dalla NIAF, la National Italian American Foundation: insieme a me c’erano Maurizio Molinari e una editorialista del New York Times. I feedback che abbiamo avuto dopo l’evento sono stati illuminanti: riuscendo a spiegare il nostro Paese nella maniera corretta, gli intervenuti hanno capito la complessità del nostro Paese e hanno compreso che l’Italia ha il diritto al rispetto che si deve ad una grande e matura democrazia. La sciagurata copertina del The Economist con i due clown rientra nel novero dei nostri errori, di noi italiani che forniamo informazioni tali da farci sbeffeggiare. Offriamo costantemente il fianco a una cultura, quella britannica, ancora carica di atteggiamenti di superiorità imperiale. È importante invertire questo trend che iper-semplifica l’Italia. Come sappiamo la politica non è il regno del bianco e del nero. Come non lo è qui negli Stati Uniti. Spiegandoci, e noi qui ne siamo la riprova, siamo in grado poi di creare opportunità reali, concrete, misurabili, tangibili per dispiegare tutto l’enorme potenziale italiano.


di Umberto Mucci