La Corea del Nord umiliata e in ritirata

mercoledì 8 maggio 2013


La Corea del Nord stava iniziando a scomparire dalle prime pagine dei giornali da almeno tre settimane. Colpa dell’attentato di Boston, che ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Ma merito anche della non-reazione statunitense. Washington ha scommesso sul fatto che Kim Jong-un stesse bluffando. E, a quanto risulta finora, era veramente un bluff. La notizia di ieri, che potrebbe segnalare la fine della crisi, è il ritiro dei missili Musudan dalle loro postazioni di lancio, sulla costa orientale nordcoreana. Il problema, per Kim Jong-un, è di essersi spinto troppo oltre nelle sue provocazioni verbali e nelle sue minacce militari. Con l’inizio dell’allerta nucleare, la rottura diplomatica con la Corea del Sud, lo sgombero dell’impianto comune di Kaesong (i cui ultimi lavoratori sono partiti la settimana scorsa), il taglio delle linee rosse di emergenza fra Seul e Pyongyang, il “regno eremita” si era infilato in una situazione in cui le vie di uscita possibili erano due: o la guerra, o l’umiliazione. La guerra appare un’opzione impensabile: troppa la sproporzione di forze e, dopo tutte quelle minacce, è venuto a mancare il fattore sorpresa.

E allora: umiliazione. Dopo mesi di allerta, manovre, parole grosse, video di propaganda e parate spettacolari di uomini e armi, la Corea del Nord deve rimettersi la coda fra le gambe. E non passerà molto tempo prima che ricominci a chiedere gli aiuti alimentari di cui ha un bisogno urgente. Il passo indietro potrebbe essere stato motivato dalla reazione cinese. La Repubblica Popolare, che ha sempre sostenuto Pyongyang, in questo mesi sta dando chiari segni di stanchezza e disaffezione per un alleato troppo imprevedibile. La Cina ha condannato (con una mossa senza precedenti) l’ultimo test nucleare nordcoreano. E in questi giorni, Pechino ha annunciato il taglio delle relazioni finanziarie fra la Banca della Cina e la Banca Commerciale Internazionale di Pyongyang. Da parte sua, il “regno eremita” ha iniziato a rispondere alla pressione cinese facendo evacuare a forza le aree di confine, anche per impedire ai suoi cittadini di fuggire oltre-frontiera. Da questo punto di vista, la rottura con la Cina costituirebbe la premessa per un’umiliazione ancora più grande per il giovane sovrano del “regno eremita” L’unica carta che rimane al giovane successore del “leader beneamato” è quella della disinformazione: spacciare ogni futuro negoziato e ogni ulteriore aiuto ottenuto, come il risultato della pressione militare esercitata da dicembre ad oggi. Una sponda pare offrirgliela la presidente della Corea del Sud, Park Geun-hye. Benché nazionalista e figlia del dittatore Park, uomo forte dei Seul, ha fatto del dialogo con il Nord uno dei suoi cavalli di battaglia elettorali.

Attualmente in visita negli Stati Uniti, ha promesso al presidente Barack Obama di far di tutto per riallacciare “forti legami” con l’altra parte della penisola coreana. Oggi ribadirà e preciserà pubblicamente la sua politica di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Kim Jong-un può anche contare sul ricatto personale. Un cittadino americano, Kenneth Bae, è stato arrestato lo scorso novembre, processato e (la settimana scorsa) condannato per vari reati di “sovversione contro lo Stato” a 15 anni di lavoro forzato nei gulag nordcoreani. Kim potrebbe utilizzarlo come pedina, in un eventuale negoziato, per ottenere concessioni dagli Stati Uniti. Meno probabile, ma sempre possibile, è una sorpresa finale. Già il 12 dicembre 2012, il regime nordcoreano era riuscito a depistare la stampa internazionale, ritirando componenti del nuovo missile a lungo raggio, ma lanciandolo subito dopo. Quando già si tirava un sospiro di sollievo per il “mancato” lancio, i nordcoreani spedivano il loro primo satellite in orbita. Il ritiro dei Musudan prelude a una nuova mossa a sorpresa? Non è un caso che George Little, portavoce del Pentagono, rifiuti di rilasciare qualsiasi commento e si limita ad affermare che è ancora “troppo presto” per festeggiare la notizia.


di Stefano Magni