Caos siriano, azioni preventive israeliane

martedì 7 maggio 2013


Due raid israeliani, molto vicini temporalmente l’uno all’altro, aggiungono un ulteriore elemento di caos nel caos siriano. In una guerra dove non è possibile tracciare alcuna linea del fronte, combattuta fra un esercito regolare sempre meno solido e affidabile e una galassia di organizzazioni armate di insorti tutt’altro che omogenea, assistiamo già a una serie di ingerenze internazionali non dichiarate. Gli iraniani e i russi sostengono il regime di Bashar al Assad, inviando armi che permetterebbero all’esercito regolare di schiacciare l’insurrezione. Se non fosse che già oltre 100mila uomini, compresi ufficiali di medio e alto rango, con al seguito i loro armamenti, sono passati dalla parte dell’Esercito di Liberazione Siriano, che ora di uomini ne conta circa 120mila.

È già stata rilevata (dai ribelli, dall’intelligence occidentale e da dichiarazioni delle stesse autorità iraniane) la presenza di Forze Qods di Teheran, mandate per combattere una guerra di contro-insurrezione. Dal Libano stanno arrivando in gran numero gli alleati del regime iraniano, gli Hezbollah, che cercano di riconquistare, a nome del regime di Damasco (loro sponsor principale, oltre all’Iran) il controllo delle città occidentali. L’esercito regolare di Assad è affiancato da milizie irregolari alawite, che massacrano gli sciiti. Sarebbero loro i responsabili dell’ultimo eccidio di Al Bayda. Se dalla parte di Damasco combatte una galassia variegata di formazioni straniere e locali, il caos è ancora più estremo dalla parte degli insorti. C’è l’Esercito di Liberazione Siriano, che è sostenuto indirettamente dall’Occidente con equipaggiamento non letale, dall’Arabia Saudita e dal Qatar con armamenti comprati sul mercato internazionale e spediti attraverso Giordania, Libano e Turchia. C’è l’esercito jihadista di Al Nusrah, collegato direttamente alla rete di Al Qaeda e per questo considerata dal governo degli Usa una “organizzazione terrorista”. È forte (a seconda delle stime) di 5000 o 8000 uomini, finanziato da una rete di moschee islamiche amiche.

E, probabilmente, anche da Qatar e Arabia Saudita, che non sempre selezionano i destinatari dei loro aiuti (o non lo fanno con i nostri stessi criteri). Oltre ad Al Nusrah, troviamo anche una vera e propria “Brigata Internazionale” jihadista, che si appoggia alla rete creata due decenni fa per combattere contro i serbi in Bosnia e tuttora attiva. Questo gruppo, che si è distinto soprattutto nelle regioni occidentali della Siria, è attualmente comandato da un guerrigliero ceceno (“al Shishi”) e include nei suoi ranghi volontari da tutti i Paesi del mondo, Cina compresa. E poi c’è la sotto-galassia del Fronte Islamico Siriano, composta soprattutto da guerriglieri locali. Fra le sue file vi sono anche formazioni collegate ad Al Qaeda. L’Esercito di Liberazione Siriano è tutt’altro che compatto e non è ancora chiaro quanto, al suo interno, vi siano o meno infiltrazioni di formazioni jihadiste. I curdi del Nord, con le loro milizie armate, sono a loro volta divisi fra filo-regime e anti-regime. L’estate scorsa, dopo aver combattuto al fianco di Assad, avevano stretto un patto con l’Els, ma da questo inverno sono ripresi i combattimenti fra loro e gli altri insorti.

Anche in questo caso, l’elemento curdo è internazionale e potenzialmente esplosivo, perché coinvolge direttamente la minoranza curda in Turchia e la regione autonoma curda nel Nord dell’Iraq. La minoranza cristiana è in gran parte fedele a Bashar al Assad, ma non bisogna dimenticare che i cristiani furono i primi a scendere in campo contro la dittatura già nel 2011 e molti di essi sono ancora nelle file degli insorti. Fra gli uni e gli altri si contano molti dei profughi che erano fuggiti dall’Iraq in guerra e che ora, o si armano, o tornano in patria. Sull’uso delle armi chimiche è ancora buio informativo. Le agenzie di intelligence statunitensi non hanno ancora fatto definitivamente luce sul loro uso da parte del regime di Assad. Gli israeliani, in base alle loro informazioni, sono convinti, invece, che l’esercito del dittatore abbia già lanciato i gas, in più occasioni. La commissione Onu dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, non ha ancora potuto condurre un’investigazione indipendente per confermare o smentire queste notizie. In compenso, sempre in ambito Onu, il procuratore svizzero Carla del Ponte, ha dichiarato di avere indizi sull’uso di armi chimiche da parte degli… insorti. In questo caos, che significato hanno i raid israeliani? Autodifesa.

Niente di più. Il governo Netanyahu ha tracciato una chiara linea rossa e la sta facendo rispettare: niente armi di distruzione di massa e niente missili ad Hezbollah. Il rischio che un regime in crisi, in un territorio fuori controllo, possa cedere missili o, peggio, testate chimiche, alla milizia sciita libanese, è inaccettabile da un punto di vista israeliano: tutte le città del piccolo Stato ebraico sarebbero esposte alla distruzione di massa. I due raid, quello di venerdì notte e quello di sabato notte, mirano a quegli specifici obiettivi: ai missili in rotta per il Libano e (se confermato) anche al centro di ricerca di Jamraya, nei pressi di Damasco, che fonti di intelligence indicano come uno dei principali elementi del programma di armi di distruzione di massa siriano. Questi raid non significano un intervento diretto di Israele nella complessa guerra civile siriana: le milizie islamiche non sono certo amiche dello Stato ebraico. Il regime change non è mai stata una priorità di Netanyahu. Il governo di Gerusalemme mira semplicemente a ridurre il danno che potrebbe subire, se la situazione dovesse degenerare definitivamente. E l’unico modo per ridurlo è prevenirlo. Pur con tutti i rischi che ciò comporta.


di Stefano Magni