Höll: «Corea, mistero svelato il 15 aprile»

venerdì 12 aprile 2013


Da una settimana circa il regime di Pyongyang, guidato dal giovane Kim Jong-un sta attirando le attenzioni di tutto il mondo per le sue dichiarazioni aggressive e le sue minacce di un imminente conflitto e attacco contro la Corea del Sud e addirittura contro gli Stati Uniti. Eppure pare che la comunitá iternazionale non prenda troppo sul serio gli avvertimenti ma anzi, a parte le dovute precauzioni, non dia troppo peso alla Corea del Nord. Consapevolezza o presunzione? Ne parliamo con Otmal Höll, professore al OIIP (Österreichische Institut für internationale Politik) presso l’Universitá di Vienna ed esperto di questioni coreane e dell’oriente estremo.

In questi giorni assistiamo a un’escalation della crisi, ma nonostante ciò è sentore prevalente che si tratti solo di provocazioni. Un conflitto armato può scoppiare?

È molto difficile immaginare cosa si celi dietro i palazzi del potere a Pyongyang. Possiamo solo fare congetture e analizzare il passato per tentare di capire il presente. I collegamenti con il Nord non esistono ed è impossibile ottenere informazioni che non siano quelle che il regime fa trapelare. Ad ogni modo è altamente improbabile che il regime del Nord faccia volontariamente la prima mossa.

Kim Jong-un è al potere da circa 14 mesi, perché proprio adesso ha deciso di farsi notare in questa maniera al resto del mondo? Il cambio di governo a Seul può essere in qualche maniera legato a quanto sta accadendo?

Non credo. Anzi, la nuova presidentessa Park Geun-hye assume un atteggiamento più morbido e conciliante del predecessore Lee Myung-bak. Credo che ci siano due motivazioni possibili. In primo luogo le esercitazioni congiunte di Stati Uniti e Corea del Sud hanno registrato un innalzamento della qualità degli armamenti, con sottomarini nucleari e droni ed è possibile che il regime del Nord abbia informazioni dettagliate a riguardo e veda in questo una minaccia alla propria sicurezza e indipendenza. In secondo luogo è lecito pensare che il giovane Kim non abbia sufficiente esperienza politica. È stato educato in Europa e conosce il mondo occidentale, e non è inverosimile che voglia attuare delle riforme di apertura che spostino il baricentro delle spese del paese verso quelle civili piuttosto che su quelle militari. Un processo simile, forse parzialmente in atto dal suo predecessore, non sarebbe certo accettabile per i quadri dell’esercito.

Ci sarebbe, insomma, una lotta interna per il potere?

Conviene ricordare che si parla solo per ipotesi, in quanto non sappiamo cosa accade veramente, ma tanti anni d’isolamento hanno probabilmente sviluppato meccaniche paranoiche e surreali a Pyongyang, dove l’esercito esercita un controllo e una pressione altissima sulla politica. Nel 1983 andai in Corea del Nord e conobbi personalmente Kim Il-sung. L’impressione che ne ebbi fu di un uomo scollato dalla realtà del proprio paese, e che non ne fosse in controllo. Si tratta solo di un’impressione, sia chiaro, ma l’immagine del grade padre della nazione è solo una facciata dietro la quale si cela il lavoro di un esercito che assorbe fra il 30 e il 40 % del Pil del Paese e che ne controlla fondamentalmente i fili del potere. In Corea del Nord non esiste una mobilità sociale, un pensiero indipendente che nasce dalle dinamiche collettive come accade in un paese occidentale o anche asiatico. Il pensiero pubblico nasce dalla politica, e da chi s’impadronisce dei mezzi di stampa e comunicazione, e la lotta fra esercito e la famiglia Kim per controllarli potrebbe essere la causa di questa escalation.

Politici e militari sono in disaccordo. Perseguono obiettivi differenti?

Chi ha una visione reale del mondo intorno alla Corea, e Kim Jong-un dovrebbe averla, sa che questa politica non è ulteriormente perseguibile e sa che, se non di riforme, si ha necessità di un adattamento al mondo circostante. Questo diminuirebbe la centralità dell’esercito che di certo non lo vuole accettare. In quest’ottica Kim Jong-un starebbe assecondando le direttive degli alti generali.

Chi sta a capo dell’esercito preme affinché si arrivi a un conflitto armato?

No. Militarmente non sarebbero in grado di reggere un conflitto e dopo pochi giorni si arrenderebbero. Sanno che questa guerra non possono vincerla. Ciò che vogliono è sostanzialmente la sicurezza di non essere invasi militarmente e di essere presi sul serio. Il riconoscimento nella comunità internazionale come Stato sovrano e indipendente e per far questo sperano che le minacce portino alle trattative, soprattutto con gli Stati Uniti.

Sono imputabili errori di strategia agli attori che gestiscono la crisi coreana?

Fino alla fine della gestione Bush si è assistito a un’astrusa discrepanza di analisi fra Corea del Sud e Stati Uniti. I primi ritenevano che il comportamento di Pyongyang fosse dettato dalla loro forza militare, mentre i secondi sostenevano la debolezza e il prossimo collasso delle forze armate. Queste diversità hanno forse creato problemi nella gestione comune della crisi e nella strategia da adottare. Una condotta incoerente di fronte a un nemico comune ha paralizzato, o comunque rallentato, l’azione politica che sarebbe dovuta essere indirizzata a una riapertura dei negoziati e che invece ha portato allo stallo.

E la Cina?

Il caso cinese è diverso. Per quanto i cinesi vedano nel regime del Nord una zona cuscinetto e un argine di fronte alla presenza statunitense nella zona, hanno raggiunto il livello di saturazione con i comportamenti stravaganti del regime. La loro è un’amicizia forzata, ma nella realtà degli intenti vorrebbero disfarsene il prima possibile.

Sarà risolta questa crisi? E se sì, come?

Ci sono troppi aspetti non chiari, tante questioni e intenzioni di cui sappiamo poco. Io credo che questa crisi non sia necessariamente voluta o pianificata, e che potrebbe aggravarsi anche per una mala gestione o un piccolo incidente soprattutto dovuto al nervosismo nordcoreano. Un colpo di fucile, o di mortaio potrebbe essere la scintilla che fa scoppiare la polveriera. In questo caso, come ho già affermato, il Nord non sarebbe in grado di sostenerla, non avrebbe risorse politiche, militari e umane necessarie. Forse fra pochi giorni, il 15 aprile, anniversario della nascita di Kim Il-sung, ci sarà una resa dei conti con due possibili scenari. O l’escalation porterà a una guerra, risultato a cui nessuno realmente aspira e i cui costi in termini di danni, distruzioni e morti sono difficilmente calcolabili, oppure il regime si dissolverà sotto il peso del proprio anacronismo.

Quanto potrà durare il regime di Pyongyang ancora? Lo vedremo fra vent’anni?

Ci vorrebbe la sfera di cristallo, la storia è poco prevedibile. Pochi capirono che il sistema sovietico era al collasso, e quasi nessuno si rese conto prima dell’evidenza delle crisi economiche che hanno colpito l’occidente in questo secolo. Credo comunque che questo regime abbia raggiunto un livello tale d’isolamento e di distacco dalla realtà circostante che non esistono condizioni per delle riforme. Quando cadrà, sarà in un arco di tempo brevissimo.

Di conseguenza vedremo la riunificazione? O ci sono altri possibili scenari?

Sarebbe un problema enorme per il Sud poiché ovviamente il peso della riunificazione graverebbe interamente sulle spalle di Seul. Al Sud ne sono consapevoli e hanno creato un ministero per gestire la futura riunificazione, ma sanno anche che non hanno risorse necessarie per gestirla. Il Nord è in condizioni di un’arretratezza spaventosa sia economica sia sociale. Le migrazioni, interne ed esterne soprattutto in Cina, che ne scaturirebbero provocherebbero gravi squilibri. La soluzione migliore è la politica dei piccoli passi, ma so che è solo una speranza. La storia prenderà un’altra direzione.


di Nicola Seu