Obama e Israele i limiti di un’alleanza

venerdì 22 marzo 2013


Dalla visita di Obama in Israele emergono soprattutto dettagli comici. La sua auto blindata, detta “The Beast”, uno dei mezzi ruotati più sicuri al mondo, si è rifornita di diesel invece che benzina e ha dovuto fare un giro di Tel Aviv sul carro attrezzi. Netanyahu ha consigliato a Obama qualche buon locale della città, per distrarsi dagli impegni ufficiali. «Se vuole, abbiamo preparato anche un paio di baffi finti» per non far riconoscere il presidente in licenza in un’eventuale notte brava. «(Netanyahu, ndr) ha proprio l’ossessione per le linee rosse!» esclama Obama mentre segue la linea tracciata sul terreno per visitare una batteria anti-missile Iron Dome. Un idillio. Ma idillio non è. Da Gaza sono partiti realmente dei razzi, ieri mattina, diretti alle città israeliane. non era solo una salva di saluto per l’arrivo del presidente americano in “Terra Santa”.

Uno dei due ordigni ha centrato il cortile di una casa a Sderot e avrebbe potuto provocare una strage. Hamas nega ogni responsabilità, ma il momento dell’attacco parrebbe suggerire proprio un segnale lanciato, non solo contro un presidente che a Gaza non è affatto gradito, ma anche ai nemici interni palestinesi che, in quel momento lo stavano accogliendo a Ramallah. Il lancio di razzi è infatti avvenuto proprio mentre il presidente dell’Anp, Abu Mazen, accoglieva Barack Obama. Per il presidente americano è stata dunque un’inaspettata occasione per toccare con mano, che cosa sia Hamas. Una delle lobby che maggiormente sostengono Obama, J-Street (finanziata da George Soros) da anni predica il coinvolgimento del partito islamista di Gaza nel processo di pace. Bene. Ecco che cosa è realmente Hamas. Si vede da questi gesti, molto più che intimidatori, quanto voglia essere coinvolto, assieme ad Abu Mazen, nel “processo di pace”. Obama ha anche potuto toccare con mano lo stato della sicurezza in Israele, un Paese che non ha profondità strategica: «Alcune strade di Washington DC sono più lunghe», gli aveva detto Netanyahu in occasione della sua visita nella capitale americana nel 2011. Quando era Senatore, il più giovane Obama aveva visitato il Nord di Israele, subito dopo la guerra con Hezbollah. Aveva visto i danni inflitti a Kiryat Shmona, la città sulla linea del fronte bersagliata dai razzi degli sciiti libanesi. Ieri il presidente statunitense ha ribadito il suo impegno alla sicurezza dello Stato ebraico. Il pensiero non va tanto ai palestinesi, quanto alla minaccia ancora più grande che arriva dall’Iran. «Siamo stati un popolo perseguitato, oggi abbiamo il diritto e le capacità di proteggerci, non possiamo rinunciare all’autodifesa» dice Netanyahu. «Nessun Paese può dettare a un altro come garantire la sicurezza dei propri cittadini, ciò che ci unisce è avere come priorità la sicurezza dei nostri popoli», gli risponde Obama, in pubblico. Ma in privato, ne sarà altrettanto convinto? Nel 2008 Bush e Netanyahu parevano perfettamente allineati, ma (questo lo si seppe solo due anni dopo grazie a WikiLeaks) il primo vietò tassativamente al secondo di attaccare l’Iran.

Obama, per ora, è stato molto più convinto di Bush nel trattenere Israele dal compiere un raid preventivo. Lo ha dichiarato anche in pubblico, più volte: “lasciamo che la diplomazia faccia il suo lavoro” è il suo mantra. Se la diplomazia fallisce? “Tutte le opzioni sono sul tavolo” è la risposta vaga di Obama. Ma ora, se l’attacco venisse sferrato realmente cinque anni dopo il 2008, sarebbe decisamente più duro. L’Iran, per ammissione dello stesso presidente degli Usa, è ad appena un anno “o poco più” dalla sua arma atomica. Il regime iraniano ha rafforzato le sue difese anti-aeree e trasferito parte degli impianti nucleari nel sito fortificato di Fordo, che le bombe israeliane (fino a prova contraria) non riescono a penetrare. C’era proprio bisogno di attendere tutti questi anni, cercando di evitare l’inevitabile? «Siamo fieri di essere vostri alleati», dichiara Obama, in pubblico, ma la sua preoccupazione principale sembrano essere gli insediamenti ebraici in Cisgiordania, cioè Giudea e Samaria nella toponomastica ebraica. La Casa Bianca ha addirittura vietato agli studenti dell’università di Ariel di partecipare al discorso del presidente Usa agli studenti.

La loro unica colpa è di trovarsi in quello che i palestinesi reclamano come loro territorio. Il presidente non ha nemmeno voluto parlare di fronte alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme. Al di là delle spiegazioni ufficiali, il rifiuto può essere letto solo in due modi: il presidente democratico vuole evitare domande imbarazzanti e non intende parlare di fronte a una maggioranza di destra, che si sente abbandonata dagli Usa ed è contraria al suo piano di ritiro dalla Cisgiordania (o Giudea e Samaria); oppure, addirittura, non vuole benedire Gerusalemme quale capitale, una e indivisibile, visitando la sua principale istituzione politica. Obama è sempre stato favorevole alla sua divisione: quartieri occidentali a Israele, quelli orientali al futuro Stato palestinese. “Fieri di essere alleati” dello Stato ebraico, fino a che punto?


di Stefano Magni