Un Conclave rosso per la nuova Cina

mercoledì 6 marzo 2013


Contemporaneamente al Conclave per l’elezione del nuovo Papa, in Cina si è aperto un “conclave” rosso per la nomina dei nuovi leader supremi del regime di Pechino. Nella Repubblica Popolare, il cambio della guardia è già avvenuto a novembre, ma non è ancora stato formalizzato. L’apertura dei lavori del Congresso del Partito Comunista segna la consacrazione del nuovo vertice e la fine del precedente. I delegati del Congresso, fra cui spiccano anche molti vescovi “patriottici” scomunicati dal Vaticano, hanno solo il potere di ratificare, non di deliberare. Le scelte sono già state prese e sono irrevocabili. Il discorso del primo ministro Wen Jiabao, ieri, è l’enunciazione del programma dei nuovi leader. Dalla settimana prossima, in data ancora da stabilire, gli subentrerà Li Keqiang. E al posto del presidente Hu Jintao arriverà il neo-nominato Xi Jinping. La Cina di Wen Jiabao e di Hu Jintao è uscita pressoché illesa dalla crisi economica e continua a crescere, anche se più lentamente. La potenza asiatica proietta la sua forza oltre i suoi confini, arriva a minacciare Giappone, Vietnam, Indonesia e Filippine, contendendo loro piccole isole dal grande valore simbolico. È una lotta per i confini e per il prestigio militare, più che per il possesso di importanti risorse ittiche ed energetiche.

La Cina è però attraversata da malumori, comuni ormai in tutto il mondo, sul divario fra i ricchissimi e potenti vertici del potere e la massa ancora povera. Non è contro il capitalismo che si diffonde la protesta, ma contro il monopolio politico ed economico del Partito Comunista. La corruzione dilagante è causa di gravi tensioni. L’inquinamento (il più letale del mondo) dato da uno sviluppo industriale scriteriato è sempre meno tollerato dai cinesi. La questione delle nazionalità oppresse non è mai stata risolta ed è causa delle continue auto-immolazioni dei tibetani (107, quasi tutte nell’ultimo anno, quasi tutte compiute da giovani), oltre che di una continua tensione nel Turkestan orientale, terra degli uiguri. La vicenda dell’epurazione di Bo Xilai, neo-maoista e giustizialista, tuttora rischia di scoperchiare il vaso di pandora degli intrighi interni al Partito Comunista. Intanto, in tutta la Cina, scoppiano insurrezioni sempre più visibili. Insorgono i contadini contro gli espropri arbitrari dei terreni che lavorano. Insorgono interi villaggi contro la politica del “figlio unico”, condotta con metodi brutali dalle autorità locali. Insorgono e scioperano operai e giornalisti, i primi contro le condizioni disumane di lavoro, i secondi contro l’onnipresente censura. E, contrariamente ai decenni scorsi, proprio la censura è stata aggirata in tutti i modi.

Dei malumori dei cinesi non sapevamo nulla, ora giungono notizie persino dai più remoti monasteri tibetani. Di fronte a una situazione a dir poco “difficile”, la classe dirigente cinese promette di fare pulizia all’interno e pompare il nazionalismo all’estero. L’uscente Wen Jiabao promette che i suoi successori penseranno al benessere dei ceti deboli e ripulirà l’ambiente: «Lo stato dell’ambiente ecologico – ha dichiarato ieri – incide sul livello di benessere del popolo e la prosperità del futuro della nostra nazione». Contro la corruzione, promette che: «Assicureremo che i poteri politici di legislazione, implementazione e controllo si controlleranno e limiteranno a vicenda e agiranno di concerto». O si limitano o agiscono di concerto: la dichiarazione di Wen è contradditoria. Ma è difficile, per un leader di un partito unico, promettere una vera divisione dei poteri, concetto liberale estraneo all’ideologia ufficiale. Il fatto stesso che prometta qualcosa in questa direzione, in ogni caso, è sintomo di una grave preoccupazione sulla conservazione del potere e della sua legittimità. Per sfogare qualsiasi frustrazione verso nemici esterni, i mezzi ci sono. Wen, in uno dei passaggi più applauditi del suo discorso, ha dichiarato che: «Rafforzeremo la sovranità della Cina, la sicurezza e l’integrità territoriale». Fra i territori che intende, ci sono anche nazioni che non sanno (e non vogliono) essere Cina: l’intera Taiwan, che Pechino considera come una propria regione, il Tibet e il Turkestan orientale che non vogliono più far parte della Repubblica Popolare, oltre a tutte le isole disabitate contese con le nazioni vicine. Il regime comunista cinese gioca e giocherà ancora la carta dell’ambiguità nei suoi rapporti con la Corea del Nord, permettendo al “regno eremita” di continuare a vivere e destabilizzare la regione, usandolo come una vera e propria mina vagante contro il Giappone, la Corea del Sud e soprattutto gli Usa.

Anche ieri, dopo dei colloqui “molto duri” (secondo la definizione che ne ha dato un funzionario dell’Onu), la diplomazia pechinese è riuscita a trovare un accordo con gli Usa, temperando le sanzioni che verranno presentate al Consiglio di Sicurezza, in risposta all’ultimo e più potente test nucleare nordcoreano. Per garantire l’integrità e la sovranità della Cina, per usare i termini di Wen, Pechino spende ingenti capitali nelle forze armate. Quest’anno, mentre tutte le democrazie occidentali tagliano i loro budget militari, la Cina lo aumenterà del 10,7%, poco meno di quell’11,2% di aumento dell’anno scorso. Il futuro presidente, Xi Jinping, viene dipinto dai media statali come un uomo del popolo e un fervente nazionalista. Saranno queste le tendenze della nuova Cina.


di Stefano Magni