L’Islamofascismo e il Matteotti tunisino

domenica 10 febbraio 2013


La Tunisia come l’Italia fascista? Sarebbe facile tracciare questo parallelo, soprattutto dopo l’omicidio di Chokri Belaid, i cui funerali si sono svolti ieri, alla presenza di migliaia di tunisini indignati e in clima di fortissima tensione politica. Bobo Craxi ha paragonato l’avvocato e politico tunisino a Matteotti. I partiti laici dell’opposizione tunisina, subito dopo il suo assassinio, si sono ritirati dall’Assemblea Costituente, un Aventino nordafricano. E Chokri Belaid, proprio come Matteotti nell’Italia dei primi anni ’20, denunciava da tempo la nascita di squadroni armati legati al nuovo partito di potere e l’involuzione totalitaria del nuovo potere. Questo parallelo farà storcere il naso a ben più di uno storico. Ma almeno serve a far toccare con mano, all’opinione pubblica occidentale e araba, la natura e i fini dei partiti islamisti. Quando i neoconservatori americani (a partire da Daniel Pipes) parlavano apertamente di “islamofascimo”, erano derisi o accusati di essere dei propagandisti al soldo di George W. Bush.

L’uccisione di Chokri Belaid, nella Tunisia emersa dalla Rivoluzione dei Gelsomini, fa dire anche ai socialisti più ostili ai neocon che: ebbene sì, i partiti islamici sono come i fascisti. Belaid non era sicuramente un politico “filo-occidentale” nell’accezione americana del termine. Si batteva per la difesa dei diritti umani, sicuramente. Ma la sua formazione culturale era tipicamente pan-arabista: dopo aver studiato legge nell’Iraq di Saddam Hussein, non ha del tutto abbandonato il dittatore iracheno. Da avvocato, ha fatto parte del suo team di difesa durante la “Norimberga” irachena che si concluse con l’impiccagione dell’ex tiranno. Con questo non si può dire che Belaid fosse un difensore delle dittature panarabe, come testimonia la sua lunga e rischiosa militanza contro il dittatore Ben Alì in patria. Ma la sua idea di democrazia era molto diversa da quella liberale, che gli Stati Uniti avrebbero voluto esportare nel mondo arabo.

Chokri Belaid era un socialista fortemente anti-liberale e un pan-arabista ostile a Israele. Nel programma del partito che guidò, il Movimento dei Patrioti Democratici (una formazione di orientamento marxista nata nel 2011, subito dopo la rivoluzione), troviamo tutti gli elementi tipici della democrazia socialista: cessione delle terre pubbliche a cooperative di agricoltori, garanzia dei diritti “sociali, economici e culturali”, redistribuzione delle ricchezze “alle masse popolari”, ri-nazionalizzazione dei settori dell’economia che Ben Alì aveva privatizzato e intervento dello Stato per garantire i settori strategici dell’industria. Nel programma di politica estera troviamo anche un impegno alla lotta contro “il fronte capitalista, i suoi collaboratori e agenti locali”, l’appoggio a tutti i “movimenti di liberazione nazionale” contro la “mondializzazione capitalista” e la rottura di ogni rapporto con Israele. Chokri Belaid, insomma, non poteva essere accusato di essere un agente del Mossad o della Cia.

Eppure era ugualmente nel mirino degli islamisti. Perché si opponeva alla loro politica familiare, sostenendo la completa eguaglianza fra i sessi. Perché era laico e dunque condannato dagli imam fondamentalisti con l’appellativo di “kafir”: infedele. E, soprattutto, perché denunciava quella zona grigia di connivenza fra le squadre armate salafite, che seminano il terrore in Tunisia, e il partito Ennahda, emanazione dei Fratelli Musulmani locali e guida dell’attuale governo. «Lui in particolare metteva in guardia contro i Comitati per la Protezione della Rivoluzione – ha dichiarato la vedova Belaid - che sono composti da estremisti protetti da Ennahda. E mio marito è stato minacciato di continuo. Ma le autorità non hanno mai fatto nulla. Gli hanno solo risposto che ciò era inevitabile se si ostinava a criticare Ennahda».

L’inchiesta sull’assassinio è appena cominciata. Benché sia stato arrestato subito un primo sospetto (l’autista dell’avvocato) non è ancora chiaro chi sia il vero assassino ed è sconosciuto il mandante. Ci sono anche sospetti sugli ex uomini del regime di Ben Alì, che non gli avrebbero perdonato il suo ruolo nella rivoluzione. Oltre alle minacce ricevute di continuo, citate dalla moglie della vittima, è la campagna di diffamazione contro l’avvocato laico che fa pensare ad un atto di violenza di Ennahda, o compiuto dai salafiti e tacitamente accettato dal partito islamico. L’opposizione ha comunque già spiccato la sua condanna politica, contro gli islamisti. Ora anche la sinistra tunisina, come i neoconservatori americani dicevano in tempi non sospetti, ne è convinta: i fondamentalisti islamici sono “islamofascisti”.


di Stefano Magni