L’Alleanza Atlantica sfida il XXI secolo

mercoledì 6 febbraio 2013


Siamo abituati a pensare alla Nato come all’alleanza della Guerra Fredda. Allora si trattava di dissuadere l’Urss e i suoi alleati dall’attaccare l’Europa occidentale. Questa azione era la deterrenza, rafforzata, soprattutto, dal possesso di armi nucleari. Oggi questo scenario non esiste più. Per fortuna. In compenso ci sono ben altre minacce dirette: terrorismo, cyberterrorismo (attacchi informatici), armi di distruzione di massa possedute da regimi imprevedibili e fanatici, come Iran e Corea del Nord. Come se non bastasse, la Nato è piagata dalla crisi economica che coinvolge tutta l’eurozona. Di fronte alle nuove minacce (e tenendo conto che di soldi ce n’è pochi), stanno emergendo nuovi concetti e nuove strategie. Termini ricorrenti quali “interoperability” (interoperabilità), “smart defense” (difesa intelligente), “readiness” (prontezza) che stanno archiviando la vecchia idea di deterrenza e difesa. A margine della 58^ Assemblea Generale dell’Atlantic Treaty Association, entriamo in questi nuovi concetti assieme ad Antonella Cerasino, della divisione Diplomazia Pubblica della Nato.

«Interoperabilità è la capacità dei membri della Nato di operare assieme, a tutti i livelli, dalle strutture di comando fino alle operazioni di teatro – ci spiega - Non esistendo un esercito unificato della Nato, le forze nazionali dei vari paesi membri devono saper lavorare assieme. In Afghanistan, i contingenti Nato hanno acquisito questa capacità. Dopo la prossima fine delle operazioni in Afghanistan il problema che si pone sarà come far tesoro di questo bagaglio di esperienze. E di come farlo con sempre più esercitazioni negli anni a venire». La Libia, tuttavia, ha dimostrato che, senza il sostegno americano, gli alleati europei avrebbero potuto fare ben poco… «La Libia ha mostrato quale sia il gap tra Usa ed Europa. Perché in alcune aree, come quella che riguarda la sorveglianza e la ricognizione (quella che viene chiamata Intelligence Surveillance Reconnaissance), i Paesi del Vecchio Continente si sono rivelati ancora inadeguati rispetto agli alleati d’oltre oceano. Adesso si stanno facendo primi passi avanti in questo settore, come l’Allied Ground Surveillance, un sistema di cinque droni che dovranno monitorare i teatri di operazione. Con gli accordi presi al summit di Chicago (2012) sarà nelle mani di cinque Paesi Nato, fra cui l’Italia.

E la base dell’Ags sarà a Sigonella». Si parla anche di “readiness”, come concetto fondamentale rispetto all’attuale “deployability” (capacità di spiegamento, ndr). Cosa cambierà, all’atto pratico? «Gli scenari attuali ci fanno presagire che in futuro non ci saranno più grandi e durature operazioni, come quella in Afghanistan – ci spiega Antonella Cerasino – Questo però non vuol dire che le forze armate non debbano essere pronte all’impiego, in caso di necessità. Quindi si passa da una fase più attiva di reale dispiegamento di forze sul terreno, ad una di preparazione per un eventuale intervento fuori area». Il futuro sarà fatto di “piccole guerre”? «Le ipotesi attuali prevedono interventi più limitati, per periodi più brevi. Ma naturalmente bisogna essere pronti anche ad eventuali “surge”, (invii di ondate di rinforzi, ndr). In generale, sia nelle opinioni pubbliche che nell’establishment politico, c’è una sorta di fatica per le missioni all’estero. È per questo che nessuno immagina altri coinvolgimenti in conflitti di lunga durata».

La “smart defense” si riferisce alla suddivisione “intelligente” di compiti fra le varie forze armate. Un esempio di smart defense è la difesa anti-missile: base di comando a Ramstein (Germania), basi avanzate in Romania e in Polonia e tecnologie prevalentemente americane, utilizzate da specialisti di tutti i Paesi della Nato. Il tutto per proteggere eventuali bersagli civili e militari europei da un (possibile, ma, si spera, non probabile) lancio di missili balistici. Come mai, però, le tecnologie anti-missile ci sono già tutte, ma per uno spiegamento completo bisogna ancora attendere da qui al 2020? «La decisione politica di dotarsi di una difesa anti-missile della Nato è stata presa a Lisbona nel vertice del 2010. Da lì in poi sono stati compiuti i primi passi. Al vertice di Chicago è stata dichiarata una “interim capability”, una prima capacità di difesa contro un eventuale attacco missilistico. Si andrà avanti a tappe, a fasi, fino al 2018-2020. Vedremo, negli anni successivi cosa sarà necessario fare per passare da una “interim capability” ad una “full capability”. La lentezza di questo processo non è politica o diplomatica. Le decisioni fondamentali, ormai, sono state prese. Certo ci sono, però, tempi tecnici obbligatori, soprattutto per sistemi complessi come quello anti-missile. Richiedono molti investimenti, molta nuova ricerca e sviluppo. Anche se la decisione è già stata presa, la sua attuazione avviene in un certo numero di anni». Sperando che, nel frattempo, qualche “stato canaglia” non ci batta sul tempo...


di Stefano Magni