“Hillary for President”, nonostante gli errori

martedì 29 gennaio 2013


Hillary Clinton lascia l’incarico, con il plauso del presidente Barack Obama. La titolare della politica estera statunitense, dopo essersi ripresa da un brutto periodo di malattia (svenuta a causa di un malore, si è procurata una commozione cerebrale), si è presentata di fronte al Senato per rispondere alle domande su Bengasi e ha mostrato una grande vitalità.

È stata la sua ultima apparizione pubblica, o la prima tappa della sua campagna elettorale? C’è da scommettere, salvo imprevisti, per la seconda ipotesi. Persa la nomination nel 2008, scippata da Obama dopo un duello durato un anno, la Clinton ha tutte le carte in regola per aspirare a diventare la prima donna presidente nella storia degli Usa. È uscita illesa persino dall’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia. Si era attribuita la colpa della grave sconfitta alla vigilia del secondo dibattito televisivo fra Obama e Romney e ha lasciato che fosse il presidente a concederle l’assoluzione piena, assumendosi, da comandante in capo, tutte le responsabilità del caso. La macchina elettorale dei Clinton è già in moto. Nel 2012, l’ex presidente Bill Clinton è stato più attivo che mai nella raccolta di fondi e di consensi per il presidente in carica. Spendersi per l’ex rivale della moglie non è un atto gratuito. C’è un ritorno preciso: la stessa macchina, messa in moto nel 2008 e oliata nel 2012, andrà a pieno regime nel 2016, quando inizieranno le primarie democratiche. “Hillary for President” sarà il tormentone dei prossimi quattro anni, nonostante Obama stesso definisca “incorreggibili” quei giornalisti che lo prevedono già da oggi.

Ma alla fine che cosa resterà dell’opera diplomatica di Hillary Clinton? La sua prima foto celebre risale a quattro anni fa e la ritrae assieme al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Entrambi sorridenti, premono simbolicamente un bottone rosso. Era la politica del “reset” e “restart”: poniamo fine alle nostre liti (accumulate durante l’era Bush) e ripartiamo da zero. In parte è stato un successo, perché Russia e Usa hanno firmato il rinnovo del trattato Start per la riduzione delle testate nucleari strategiche. Ma per un accordo rinnovato, ce n’è un altro che è spirato: Mosca si è ritirata unilateralmente dal Trattato per le Forze Convenzionali in Europa. Lo ha fatto in seguito alla decisione Nato di procedere con lo spiegamento del nuovo scudo anti-missile. E, dall’anno scorso in poi, la Russia si sente legittimata a schierare nuovi missili convenzionali (come gli Iskander) puntati sugli obiettivi della Nato. La retorica dello stato maggiore russo è attualmente la più violenta dai tempi della Guerra Fredda. Nessuno, prima del 2012, aveva mai più parlato di possibile “attacco preventivo” all’Europa. Il generale Makharov, comandante delle forze armate, lo ha dichiarato esplicitamente e senza mezzi termini pochi mesi fa. Lo spettro della guerra nucleare torna a manifestarsi: Mosca completerà lo schieramento di missili strategici di nuova generazione entro il 2018 (quando lo scudo anti-missile europeo sarà ancora incompleto) e ha già messo in mare la prima unità di una nuova classe di “boomers”, i sottomarini lanciamissili strategici. Altro che “reset”! Dopo quattro anni di diplomazia clintoniana, pare di essere ripiombati nel gelo del confronto Usa-Urss.

L’Iran, nel 2008, era il dossier più urgente in assoluto. Già allora i rapporti lo davano per vicino alla sua prima bomba atomica. Dopo quattro anni di sanzioni e tentativi falliti di dialogo, è a un passo dal diventare una potenza nucleare nel Medio Oriente. E sì che vi sarebbe stata un’occasione più unica che rara per porre fine al problema: la Rivoluzione Verde, scoppiata contro il regime degli ayatollah nell’inverno del 2009, è stata scientemente trascurata dall’amministrazione Usa. Si è trattato di una scelta strategica e non di semplice distrazione: allora, sia la Clinton che Obama credevano ancora nella possibilità di un dialogo con il regime di Teheran. Che non c’è stato. A proposito di Medio Oriente, la Clinton sarà anche ricordata per il naufragio del dialogo fra Israele e Palestina, interrotto dalle due parti nel 2010. L’amministrazione Obama si affretta a dar tutta la colpa al governo israeliano, guidato dal “falco” Benjamin Netanyahu. Ma gli israeliani hanno qualche ragione dalla loro parte: si sono sentiti completamente abbandonati dall’amministrazione democratica. Hanno continuato a ricevere aiuti militari dagli Stati Uniti, ma si sono sentiti traditi proprio nella loro lotta per la legittimazione internazionale, in tutti i negoziati in corso. Hanno trovato un’amministrazione ostile sull’unità di Gerusalemme e inflessibile sui nuovi insediamenti (anche all’interno della stessa capitale), dunque… non si sono più fidati degli alleati americani. E questo non è tanto un flop del presidente, né della Difesa, ma proprio degli Esteri. Dunque della Clinton. Ma forse, sempre restando nell’area del Medio Oriente allargato, il più grande insuccesso della diplomazia americana è quello che viene vantato come la migliore vittoria: la Primavera Araba. In tutti i Paesi che si sono liberati dai loro dittatori, Tunisia, Egitto, Yemen e Libia, si stanno insediando nuovi governi fortemente ostili agli Stati Uniti, oppure regna il caos. La Libia, scenario della tragica uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens, non ha neppure più un governo e le milizie islamiche spadroneggiano. Credendo di “guidare dalle retrovie” le azioni degli alleati europei e locali, gli Usa stanno perdendo completamente il controllo della situazione. Sembra, anzi, che non abbiano neppure più una vera e coerente strategia mediorientale.

E il peggio potrebbe scoppiare in Asia orientale. La Clinton ha solo un successo degno di essere vantato, quello della parziale democratizzazione della Birmania. Ma le grandi e medie potenze regionali (Cina, Giappone, Vietnam, Indonesia, Filippine e le due Coree) si armano e sono pronte a saltarsi alla gola. Il regime di Pechino è più aggressivo che mai, pronto ad attaccar briga per qualsiasi scoglio conteso nel Mar Cinese Meridionale. La Corea del Nord si prepara a effettuare il suo terzo test nucleare, il secondo da quando c’è Obama. Giapponesi e sudcoreani si buttano a destra, eleggendo governi nazionalisti per difendersi dalle minacce esterne, con o senza il consenso di Washington. La patata bollente ora passa a John Kerry, il nuovo segretario di Stato. Intanto che la Clinton sarà già impegnata nella sua prossima campagna presidenziale.


di Stefano Magni