Qualche lecito dubbio sulla Francia in Africa

sabato 19 gennaio 2013


La crisi degli ostaggi in Algeria sta diventando un caso macroscopico. In attesa di conoscerne l’esito con esattezza e di sapere quanti siano realmente i caduti e quanti i liberati (le notizie date dalle agenzie locali si rincorrono e si contraddicono), restano molti dubbi sull’opportunità della politica francese in Africa. Primo dubbio: il sequestro dei dipendenti di un impianto del gas della Bp in Algeria orientale è veramente conseguenza diretta dell’intervento militare francese nel Mali? I terroristi di Aqmi dicono ovviamente di sì e giustificano il loro atto criminale come una risposta alla “oppressione dei musulmani d’Africa” da parte dei francesi. Ma, più emergono i dettagli dell’operazione, più si capisce che l’azione di sequestro è stata pianificata da tempo, almeno da alcune settimane. I terroristi non hanno improvvisato, conoscevano l’impianto, sapevano quale fosse l’entità delle forze di sicurezza. Inoltre non si tratta di un’azione rivolta contro un obiettivo francese.

L’impianto è della British Petroleum ed era gestito anche dalla compagnia energetica algerina, la Sonatrach e da quella norvegese, la Statoil. Fra i cittadini stranieri sequestrati e probabilmente già uccisi, sono rappresentati popoli di tutto il mondo, dagli americani ai giapponesi, passando per i norvegesi e i filippini, senza contare i numerosi lavoratori algerini. I francesi ci sono, ma sono una minoranza. Al Qaeda ha sempre avuto buon gioco di far passare le sue azioni come “difensive” o per “rappresaglie” contro veri o presunti crimini occidentali. Ma alla fine, analizzando bene caso per caso, sono i terroristi che attaccano per primi, pianificando con cura le loro azioni. Si può parlare di “rappresaglia” solo in termini vaghi e solo se si dà ragione alla visione del mondo degli jihadisti, secondo cui tutto il mondo islamico starebbe vivendo un enorme assedio da parte dell’Occidente.

Da questo punto di vista, i francesi possono uscirne con la coscienza pulita. L’attacco in Algeria è la dimostrazione pratica che Aqmi è un pericolo per tutti. E che, dunque, la guerra che i francesi stanno combattendo contro gli jihadisti in Africa è più che giustificata. Secondo: anche considerando che l’attacco terroristico in Algeria non c’entri nulla con il Mali, la Francia può attendersi altre rappresaglie per il suo intervento armato? Sicuramente sì. L’attacco all’impianto della Bp è la dimostrazione che Aqmi sia molto attiva. E i possibili obiettivi francesi nell’area del Sahel sono molto numerosi: basi militari, impianti petroliferi e del gas, migliaia di cittadini presenti a vario titolo nella regione. In Somalia (che è al di fuori dell’area di interesse francese) gli jihadisti Shebaab (anch’essi legati ad Al Qaeda) hanno annunciato l’uccisione dell’ostaggio Denis Allex. E quella sì può essere stata una rappresaglia diretta per il Mali, oltre che per il fallito raid di liberazione (altri due soldati francesi morti).

Più si prolunga la guerra nel Mali più saranno probabili le vendette di Al Qaeda, soprattutto in Africa. E la rete del terrore, benché orfana di Bin Laden, è molto diffusa. Proprio per il fatto che Al Qaeda ha perso la sua testa e mente pensante, la sua struttura è ancor più decentrata e imprevedibile. Nel solo Mali ci sono almeno due sigle (Mujao e Ansar Dine) legate a quel network. La stessa banda armata che ha condotto l’assalto all’impianto della Bp in Algeria, guidata dall’ex contrabbandiere Mokhtar Belmokhtar è considerata scissionista rispetto ad Aqmi. È ancora più integralista e vuole esportare la jihad anche oltre la regione del Sahel. In tutta la regione africana occidentale si moltiplicano le sigle più o meno direttamente imparentate con Al Qaeda. E non è da escludere un prossimo attentato nella stessa Francia, o contro Paesi che ne stanno sostenendo lo sforzo militare. Italia inclusa. La scia di sangue lasciata da Mohammed Merah a Tolosa, lo scorso marzo, lo smantellamento di una rete terroristica in Francia, lo scorso aprile, sono tutte dimostrazioni di quanto il terrorismo jihadista sia ancora ben presente nel cuore della Francia.

Se la guerra dovesse continuare ancora a lungo, lo jihadismo potrebbe non essere l’unico problema da affrontare. Se Parigi dovesse decidere di restare in Mali fino alla piena restaurazione della sua integrità territoriale e al reinsediamento di un governo democratico e legittimo, si invischierebbe in un conflitto complesso tanto quanto quello in Afghanistan. Perché dovrebbero sanare un passato che, solo nell’ultimo anno, comprende una guerra di secessione e due golpe, una popolazione in cui l’odio fra etnie (soprattutto fra i neri del Sud e i tuareg del Nord) è virulento. Affidando la restaurazione dell’integrità territoriale ai militari del Sud, sono possibili vendette massicce e massacri contro i secessionisti del Nord. Intervenendo direttamente nel gestire la transizione dalla guerra alla pace, invece, la Francia rischia di inimicarsi tutte le parti in lotta. Si prefigura una scenario in cui Parigi può uscire comunque perdente. Terzo: i francesi sono del tutto estranei alla crescita dell’integralismo islamico nel Maghreb o hanno, almeno in parte, sono responsabili per la sua espansione? Ragionando in termini di semplice azione- reazione, i contestatori francesi dell’intervento, a partire dal comunista Jean Luc Melenchon e dai gollisti Dominique De Villepin e Valéry Giscard d’Estaing, ritengono che con la guerra “neocolonialista” nel Mali i francesi non potranno far altro che gonfiare le file dei loro nemici islamisti.

Il problema, però, è che la guerriglia fondamentalista è già molto forte nella regione. E dunque questo intervento militare non può far altro che cercare di contrastarne la crescita. È semmai nel passato più recente che i francesi hanno involontariamente contribuito ad alimentare il loro nemico. Rovesciando il regime di Gheddafi in Libia, con un intervento fortemente voluto da Parigi, si è aperto il vaso di Pandora delle milizie islamiche nordafricane, che hanno potuto maturare esperienza di guerra sul campo e conquistare interi depositi di armi abbandonati dai regolari libici. Tutto è legato: i terroristi islamici che hanno ucciso l’ambasciatore Christopher Stevens a Bengasi provenivano dal Mali. Le milizie tuareg che combattevano con Gheddafi, sono poi quelle che hanno provocato la secessione dell’Azawad (il Nord del Mali) e dato inizio all’attuale conflitto. I francesi, insomma, hanno peccato di incoerenza. Attaccando Gheddafi in Libia hanno indirettamente aiutato quegli stessi islamisti che ora devono combattere in Mali.


di Stefano Magni