Più tasse, più spese, più debito

mercoledì 2 gennaio 2013


Il fiscal cliff, lo scoglio fiscale, è stato aggirato all’ultimo secondo. Il mondo tira un sospiro di sollievo, perché già si temeva una seconda recessione americana (con tutte le conseguenze a catena che si possono solo immaginare), causata dall’improvviso aumento di tutte le aliquote fiscali e un contemporaneo taglio delle spese. L’americano medio tira un sospiro di sollievo, perché anche quest’anno, per lui, è stato esteso il taglio delle tasse voluto, a suo tempo, dal tanto bistrattato George W. Bush. Barack Obama canta vittoria, perché è riuscito a strappare al Congresso un accordo all’ultimo minuto, il primo giorno del nuovo anno, tenendo ferma la barra della sua politica: più tasse per i “ricchi” e meno tagli possibili alla spesa pubblica. Ma, alla fine, c’è poco da festeggiare. Perché, aggirato lo scoglio più vicino, resta quello più lontano a cui gli Usa sono diretti a tutta forza: l’aumento del debito pubblico.

Quella minoranza di Repubblicani che, ieri, ha votato contro l’ultimo accordo, cerca di indicare il vero problema. Ma resta inascoltata e seppellita dalle critiche di chi li ritiene degli “estremisti” e “irresponsabili”. Perché, negli Usa (così come in Europa) la nuova etichetta dell’estremismo viene evidentemente appioppata a chi chiede di avere conti in pareggio. «Una rapida crescita economica e una riforma della spesa pubblica sono l’unico modo di evitare lo scoglio fiscale – commenta Marco Rubio – Ma sia la crescita rapida che la creazione di nuovi posti di lavoro saranno ora più difficili a causa di questo accordo raggiunto qui a Washington». Marco Rubio è uno degli 8 dissidenti che hanno votato contro al Senato. Spiega così la sua decisione: «Migliaia di piccole imprese, non solo i più ricchi, saranno ora costretti a decidere come pagare queste nuove tasse. E le scelte che hanno di fronte sono: licenziare i loro impiegati, effettuare tagli sui loro orari e benefit o rinviare nuove assunzioni.

E, come se non bastasse, (l’accordo, ndr) non fa nulla per porre sotto controllo la pericolosa crescita del nostro debito pubblico. Naturalmente, molti americani saranno sollevati dal fatto che, nel breve periodo, le loro tasse non aumenteranno. Ma, a lungo termine, saranno colpiti quando i datori di lavoro scaricheranno sulle loro buste paga una delle più grandi stangate fiscali degli ultimi decenni. Di più: questo compromesso si limita a rinviare l’inevitabile, la necessità di risolvere la nostra crisi del debito pubblico e di aiutare 23 milioni di americani a trovare un lavoro di cui hanno bisogno». I punti critici dell’accordo sul fiscal cliff sono stati puntualmente indicati dall’Ufficio del Budget del Congresso (Cbo), che prevede, sotto la legislazione vigente, una crescita del deficit di 3900 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Le nuove entrate fiscali non basteranno a colmare le spese. Come si è giungerà a un risultato così deludente? Secondo il compromesso raggiunto al Congresso, le aliquote aumentano per i redditi superiori ai 450mila dollari annui (per le coppie) e 400mila (per i singoli). Se si include la tassa sul servizio Medicare (la sanità garantita agli anziani), secondo il Wall Street Journal l’aliquota che dovrà essere pagata dai cittadini con i redditi più alti sarà del 44%.

Per i comuni mortali che guadagnano meno di 400mila dollari, a quanto pare, ci sarà comunque una tassa in più: è infatti scaduta la riduzione della tassa sulle ferie pagate, che ora torna al suo originario 6,2%. Ma, ugualmente, stando ai calcoli del Cbo, l’estensione degli altri tagli fiscali, da sola, comporterebbe un aumento del deficit di 3600 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. Altri crediti fiscali per alcune categorie protette, lo aumenterebbero di altri 76 miliardi. L’estensione dei sussidi per la disoccupazione, di ulteriori 30 miliardi. Le tasse sulle plusvalenze e i dividendi sono state aumentate di 5 punti, da 15% a 20%, sempre riferite alle fasce di reddito più alte di 400mila dollari (450mila per le coppie). In compenso i Democratici sono riusciti a ritagliarsi una fetta di privilegi per i tipi di business a loro fedeli: esenzioni fiscali sono garantite solo per gli investimenti sull’ambiente, sulle energie rinnovabili e il risparmio energetico, sull’intrattenimento e persino sulle produzioni cinematografiche e televisive. Hollywood (che, a parte Clint Eastwood, è un feudo democratico) ringrazierà. Per quanto riguarda la spesa pubblica, il compromesso la lascia pressoché intatta e si limita a fissare nuove date in cui rimandare i tagli. Il 1 marzo potrebbe scattare (salvo nuovi accordi) un primo taglio automatico (“sequester”), un secondo scadrà il 27 marzo.

Da qua a là ci sarà ancora tempo per il “mercato arabo” delle lobby e delle burocrazie per far sì che non vengano tagliati i loro finanziamenti. Più tasse, più spese, più debito pubblico. È questa la realtà dei fatti. E i Repubblicani si sono spaccati in due fazioni: il gruppo alla Camera (in maggioranza contrario all’accordo) contro quello del Senato (favorevole quasi all’unanimità), il gruppo dei “moderati” contro quello degli “estremisti” in entrambe le aule congressuali. I primi si sono fatti prendere dal panico del fiscal cliff? La loro scelta è stata sofferta e ragionata, come testimonia il mancato accordo interno al Gop, sulla proposta di un “piano B”. Grover Norquist, presidente della potente Americans for Tax Reform (Atr), esponente dell’ala più libertaria del Gop, continua ad invitare al moderatismo. Chiunque abbia firmato il patto dell’Atr ha preso l’impegno a non votare, al Congresso, qualsiasi aumento delle tasse.

Ma Norquist spiega che, “tecnicamente parlando”, l’accordo sul fiscal cliff non è un aumento. È semplicemente la fine di vecchie esenzioni e riduzioni. «Tecnicamente non è una violazione del patto – ha dichiarato Norquist alla Cnn, liberando i suoi parlamentari dal pericolo di una “scomunica” – ma capisco come molti Repubblicani ora stiano dicendo: “Anche se quel che stiamo accettando è la scadenza di alcuni dei tagli fiscali, li stiamo reintroducendo per la maggior parte dei contribuenti. Non stiamo alzando le tasse. In realtà, le stiamo tagliando”». All’atto pratico, però, milioni e milioni di americani pagheranno più tasse rispetto al decennio passato, o subiranno gli effetti collaterali sui loro posti di lavoro. D’altronde, anche in America, così come in quasi tutta l’Europa occidentale, passa il concetto che devi, prima di tutto, salvare lo Stato a spese dei contribuenti. Di fronte a questa logica, i tagli fiscali erano un “lusso” che metteva in pericolo la tenuta dei conti. E il debito? Per i guru dell’economia che vanno più di moda, come Paul Krugman, il debito, l’inflazione e la spesa pubblica sono salutari. Almeno nel breve periodo. E nel lungo? “Saremo tutti morti”.


di Stefano Magni