Israele e le ragioni per diffidare dell’Ue

sabato 29 dicembre 2012


Gli europei spesso esprimono frustrazione per non essere più coinvolti nel tentativo di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Data la vicinanza geografica e il supporto finanziario per lo sviluppo palestinese, gli europei vogliono sapere perché il loro ruolo politico sia così circoscritto. La risposta, credo, si trova in una diffusa convinzione israeliana che troppo spesso l’Europa dia poca attenzione alle preoccupazioni di Gerusalemme. Prendete, per esempio, il voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 novembre volto ad aggiornare lo status dei palestinesi a Stato osservatore non membro, nel consesso mondiale. Nonostante le strenue obiezioni di Gerusalemme (e Washington) che una tale mossa avrebbe comportato una battuta d’arresto per il rilancio del processo di pace, premiato la strategia palestinese di bypassare il tavolo dei negoziati, e minato gli Accordi di Oslo del 1993, ben 14 paesi dell’UE, tra cui l’Italia, hanno scelto di sostenere questa mozione. Solo la Repubblica ceca ha votato contro. Ma se avessi dovuto scegliere una sola capitale europea che si sarebbe opposta al provvedimento, avrei detto Praga. Nessun altro paese dell’Unione europea ha una più lunga storia di esplicito sostegno alla creazione di uno Stato ebraico, risalente a quasi un secolo fa, al leggendario presidente Thomas Masaryk; una storia interrotta solo in epoca comunista.

Inoltre, data la sua storia, la Repubblica Ceca comprende pienamente la vulnerabilità di Israele. Dopo tutto, nel 1938, la Gran Bretagna e la Francia sacrificarono la Cecoslovacchia nel vano tentativo di soddisfare il Terzo Reich. Invece, ovviamente, l’appetito di Berlino ne fu solo stuzzicato, e portò poi alle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Se l’Unione europea si fosse astenuta in blocco sul voto delle Nazioni Unite, così come alcuni Stati membri avrebbero voluto, avrebbe inviato un messaggio più equilibrato ma, per le spinte della Francia, non è stato così. Si consideri inoltre la mancanza di volontà dell’Unione Europea di aggiungere Hezbollah alla lista delle organizzazioni terroristiche. Questa è un’organizzazione implicata in numerose trame omicide, dall’America Latina all’Asia, dall’Europa al Medio Oriente. Tuttavia, sono passati anni da quando la questione è stata sollevata a Bruxelles per la prima volta e non è successo nulla. Ora, ci viene detto, tutto dipende dalle indagini bulgare sull’attacco mortale del mese di luglio, che uccise sei persone. Ma perché dovrebbe essere questa la chiave di volta, come se non ci fossero già pagine e pagine di prove del suo coinvolgimento nel terrorismo, per non parlare delle ripetute minacce di incenerire Israele? E nei giorni scorsi, quattro nazioni Ue - Danimarca, Finlandia, Irlanda e Portogallo - hanno cercato di bloccare una dichiarazione dell’Unione Europea che comprendeva la condanna delle dichiarazioni incendiarie di Khaled Mashaal, il capo di Hamas.

Ecco un estratto del suo intervento all’inizio di questo mese: «Oggi è Gaza. Domani sarà Ramallah e dopo Gerusalemme, poi Haifa e Jaffa». Solo l’intervento della Germania e, di nuovo, della Repubblica Ceca, ha assicurato il rifiuto di questa retorica odiosa, che ribadisce una volta di più la volontà di Hamas di cancellare Israele dalla carta geografica. Se l’Unione Europea non è in grado di riconoscere Hezbollah come un gruppo terroristico e ha difficoltà a condannare le dichiarazioni “eliminazioniste” da parte del leader di Hamas, come può Israele avere fiducia in un più ampio ruolo europeo? Se l’Unione Europea vuole davvero incrementare questo ruolo, deve in primo luogo mostrare più sensibilità alla non invidiabile posizione di sicurezza di Israele, sia con le parole sia con le opere. Dopo tutto, in un processo di pace che porti a un accordo a due Stati, a Israele, che ha un’estensione pari a due terzi delle dimensioni del Belgio, viene chiesto di assumersi rischi senza precedenti per la pace. L’Europa ha bisogno di chiedersi come può contribuire a mitigare tali rischi. Vedere i gruppi terroristici per quello che realmente sono, è un modo. Così come lo è uno studio serio di quale potrebbe essere il ruolo dell’Ue “il giorno dopo” un qualsiasi accordo di pace, e in che misura potrebbe interessarsi alla sicurezza di Israele.

I recenti avvenimenti nel mondo arabo sottolineano ancora una volta, i pericoli della zona. La violenza mortale della Siria può essere una fonte di preoccupazione per l’Ue, ne siamo sicuri, ma Damasco condivide un confine con Israele. E lo stesso dicasi per il Libano sotto il controllo di Hezbollah, per Gaza dominata da Hamas, così come per l’Egitto governato dai Fratelli Musulmani e per il Sinai sempre più senza legge né controllo. Nel frattempo, la Cisgiordania è governata dall’Autorità palestinese, specializzata nell’inviare segnali contrastanti: un giorno chiede colloqui di pace, il giorno dopo rifiuta di condannare il lancio dei missili di Hamas contro Israele e cerca la riconciliazione con il gruppo, il cui statuto chiede esplicitamente l’annientamento di Israele. Questa è la realtà del deplorevole quartiere in cui vive Israele. Si tratta di un grido lontano dalla Svezia o anche dall’Italia. E la sovrapposizione della storia ebraica lo rende ancora più netto. Dopo tutto, come popolo della memoria, gli ebrei ricordano che, più di una volta, quelli che hanno chiesto la nostra eliminazione hanno poi cercato di attuarla, sia in Medio Oriente sia in Europa. Mostrando una maggiore sensibilità alla singolare situazione di Israele, l’Europa avrebbe fatto la cosa giusta e, senza dubbio, si sarebbe guadagnata un ruolo maggiore nel processo politico.

direttore esecutivo American Jewish Committee www.ajc.org

Traduzione di Carmine Monaco


di David Harris