Sul fiscal cliff i GOP giocano al “coniglio”

sabato 22 dicembre 2012


Il mondo, evidentemente, non è finito il 21 dicembre 2012. Ma gli americani possono trovarsi una brutta sorpresa all’inizio del 2013. Sta arrivando il momento del “fiscal cliff”. Tradotto letteralmente come “scoglio fiscale” (se ti poni nella prospettiva di chi va a sbatterci contro) o come “abisso fiscale” (se sei sopra lo scoglio e stai guardando verso il basso), il “fiscal cliff” è tecnicamente la scadenza dei tagli provvisori alle tasse promossi all’epoca dell’amministrazione Bush e rinnovati sotto quella Obama. Non solo: segna anche la scadenza delle norme che finora hanno congelato sia il “tetto del debito” (il limite posto all’aumento del debito pubblico), sia i tagli alle spese, che a questo punto dovrebbero essere effettuati. Tutti questi vincoli scadranno con la fine dell’anno. Gli aumenti a quasi tutte le aliquote fiscali riguarderebbero circa 9 americani su 10. Il combinato disposto di tasse più alte e tagli alle spese potrebbe provocare una nuova recessione negli Stati Uniti. Il condizione è ancora d’obbligo, perché ci sono ancora pochi giorni di tempo per raggiungere un accordo. Ma ieri questa possibilità è stata rimessa in discussione dai Repubblicani. John Boehner, il presidente della Camera (a maggioranza di destra), non è riuscito a convincere il gruppo parlamentare repubblicano sulla necessità di approvare un “piano B” con cui andare a negoziare con Barack Obama. Un compromesso, in sé, è difficile, perché Democratici e Repubblicani partono da premesse opposte. I primi sono favorevoli all’aumento delle tasse per chiunque abbia redditi superiori ai 250mila dollari annui e sono disposti a tagliare spese militari, ma non sociali. I secondi sono fermamente convinti che si debbano tagliare tutte le spese tranne quelle militari e, al contrario, si debbano rinnovare tutti i tagli fiscali.

Il Piano B di Boehner avrebbe dovuto essere approvato ieri sera, ma la votazione, dopo intense trattative interne al Gop, alla fine non è stata fatta. Tutto rimandato a dopo Natale. Nel dare l’annuncio del fallimento del “Piano B”, il volto stesso di Boehner tradiva una profonda frustrazione. La maggior parte dei Repubblicani intervistati a botta calda si dicono, come minimo, rammaricati. Chi ha fatto saltare il compromesso? Non Grover Norquist, presidente della lobby anti-tasse Americans for Tax Reform, considerato la mente dei conservatori più anti-statalisti. Il giorno prima del voto, infatti, Norquist aveva dato luce verde al “piano B” di Boehner, che includeva, fra gli altri punti, l’aumento delle tasse per i cittadini con un reddito annuo superiore al milione di dollari. Con un argomento apparentemente incoerente con la sua pluri-decennale battaglia, aveva dichiarato che l’approvazione della proposta del presidente della Camera non avrebbe violato il patto anti-tasse, finora firmato e rispettato dalla maggioranza dei deputati e senatori conservatori attualmente al Congresso. Se persino Norquist stava dando il suo ok, sono stati per caso i libertari a buttarsi a terra? Chi è stato più realista del re? Il deputato Justin Amash, del Michigan, libertario, dichiara  alla National Review che: «Molti qui ritengono che questo sia un aumento delle tasse. Ma non credo che sia questo il senso della proposta di Boehner». Si tratta, infatti, di un mancato rinnovo di tagli fiscali provvisori, non di un vero e proprio aumento nel senso letterale del termine. Ma l’effetto è identico. Anche Amash, comunque, si dice dispiaciuto per l’esito della serata di giovedì. Potrebbe essere stato Paul Ryan, ex candidato alla vicepresidenza e noto alla stampa come “ultra-liberista”? Nemmeno lui. Perché, pochi giorni fa, dichiarava, a sostengo del Piano B: «Per quanto riguarda le tasse, bene: quel che stiamo cercando di fare qui è una riduzione del danno ai contribuenti. Non c’è un solo aumento delle tasse, nessuno. Quel che stiamo dicendo è: evitare, il più possibile, che il fisco possa colpire chiunque». 

Insomma, chi parla si guarda bene dal dire che ha (o avrebbe) votato contro, ma resta da capire chi siano i “molti” che lo hanno fatto. Ma se avessero ragione loro? Leggere la Heritage Foundation può essere utile per sentire anche l’altra campana: «Permettere che le tasse aumentino per una parte della popolazione americana e per le piccole aziende non è una soluzione. È un artificio politico». In un’analisi pre-voto, la Heritage, una delle più ascoltate istituzioni culturali conservatrici, aveva messo seriamente in dubbio la lealtà politica di Obama. Nell’ultimo incontro fra l’inquilino della Casa Bianca e Boehner, con una trattativa da mercato arabo, il secondo avrebbe voluto aumentare le tasse solo per i redditi superiori al milione di dollari annui, il primo ha concesso, al massimo, 400mila dollari. Tutti coloro che guadagnano di più (anche aziende medio-piccole, che tengono in vita l’economia americana), per Obama, dovrebbero subire la mannaia del fisco. In compenso, in cambio di questa concessione (da 250mila a 400mila dollari), Obama aveva chiesto di innalzare il tetto sul debito ed era stato estremamente vago sui tagli alla spesa. Probabilmente, per ottenere un consenso bipartisan, i Repubblicani avrebbero, in ogni caso, dovuto accettare la linea di Obama, dando carta bianca all’aumento del debito e della spesa, e facendo pagare un caro prezzo alle piccole e medie aziende. I dissidenti, opponendosi a qualsiasi accordo, hanno scelto di fare il gioco più pericoloso, quello del “coniglio”: andare addosso, con la propria auto, a un’altra auto in corsa nella direzione opposta. Perde chi, per primo, va fuori strada per schivare l’altro. I Repubblicani che giocano più duro sperano che sia Obama a fare il coniglio: anche al presidente non conviene mettere la propria faccia su un aumento di tasse e su una possibile recessione nel corso del proprio mandato. Ma se dovesse avvenire lo schianto contro il “fiscal cliff”, saranno gli americani a subirne gli effetti.


di Stefano Magni