Seul si difende e sceglie una donna di destra

venerdì 21 dicembre 2012


Continua l’ondata di nazionalismo in Asia orientale. Anche la Corea del Sud, dopo il Giappone, elegge la sua campionessa della destra: Park Geun-hye è la nuova presidente eletta. Il cognome a noi dice poco, ma ai coreani del Sud dice molto. Perché sarebbe come eleggere, al vertice dello Stato, un Pinochet in Cile. Park Geun-hye è la figlia di Park Chung-hee, dittatore sudcoreano arrivato al potere con un golpe nel 1961 e assassinato da una delle sue spie nel 1979. La fama del padre non è il massimo per un osservatore internazionale, a causa delle persecuzioni di sindacalisti e dissidenti, per la legge marziale e i crimini commessi dalle sue truppe nella Guerra del Vietnam, dove la Corea del Sud intervenne al fianco degli Usa e si distinse per atti di estrema brutalità: almeno 10mila civili uccisi. I sudcoreani, tuttavia, potrebbero non avere un cattivo ricordo del loro ex dittatore. Tenne alla larga i comunisti nordcoreani, impose l’ordine, ma soprattutto fu l’artefice del primo boom economico sudcoreano.  La vita della giovane Geun-hye è stata segnata sin da subito. Nel 1974 sua madre venne assassinata da una spia nordcoreana. E da quel momento in poi fu lei a dover giocare il ruolo della first-lady, iniziando a familiarizzare con la politica interna e internazionale. Entrò in politica molto più tardi, facendosi eleggere nelle file del partito conservatore nel 1998, quindi 11 anni dopo la fine del regime autoritario. Il peso della memoria del padre Chung-hee, è la prima delle contraddizioni della nuova presidentessa: lei ne critica i metodi, ma non ne rinnega il ruolo. Non ha mai espresso una condanna per il golpe del 1961, che tuttora considera “necessario”. Attira i voti dei conservatori grazie al suo cognome, ma allo stesso tempo deve presentarsi come una novità della politica, essendo, in assoluto, la prima donna presidente.

Nata e cresciuta in una dittatura, la Park ha trovato vita piuttosto difficile nella democrazia. Non a causa del sistema politico, ma del maschilismo diffuso nella società coreana. Avrebbe avuto i numeri per candidarsi alla presidenza già nel 2007, ma il partito Saenuri (“nuova frontiera”, conservatore) le aveva preferito Lee Myung-bak. Ha dovuto fare altri cinque anni di “gavetta” prima di arrivare ai vertici del potere coreano. Adesso ha ricevuto il sostegno proprio da quella che viene considerata come la parte più “retriva” della società coreana: grandi dinastie economiche, grandi aziende, grandi monopoli. Eppure lei si è presentata come una riformatrice, con slogan dal tono populista (“democrazia economica”) e programmi sociali contro i “privilegi” delle classi agiate e contro la concentrazione del potere economico in pochi, grandi monopoli. Quante (grandi) contraddizioni!

Che cosa ha indotto, dunque, i sudcoreani a votare in massa questa donna? Più del 75% degli aventi diritto è accorso alle urne. Si tratta, in tutta la storia sudcoreana, del voto con più elettori, secondo solo alle prime libere elezioni. Più del 52% ha votato la candidata del Saenuri. Nonostante il maschilismo. Nonostante lo scetticismo nei confronti della figlia di un dittatore. Nonostante la contraddizione di una candidata che è espressione dei monopoli e li vuol combattere. Non si capisce il perché di una scelta così plebiscitaria… se si dimentica l’esistenza della Corea del Nord. E in generale, non si può capire il senso della politica sudcoreana, della sua lunga dittatura, della sua lentissima apertura alla democrazia liberale, se si dimentica che nel 1950 la Corea del Nord, comunista, guidata da un agente dei servizi segreti di Stalin, chiamato Kim Il-sung, ha invaso il Sud di punto in bianco, con lo scopo di riunificare la penisola sotto l’egida di Mosca. La guerra, tecnicamente, non è mai finita da allora. Nel 1953 non è stato firmato alcun trattato di pace, ma solo un armistizio. Il regime del Nord resta un esempio più unico che raro di stalinismo applicato. Nel territorio sudcoreano sono ancora presenti 50mila militari statunitensi, una piccola eredità dell’esercito americano che combatté la guerra del 1950-53. Fra le due parti della penisola coreana, scorre un fiume di filo spinato, campi minati e bunker, eufemisticamente chiamato “zona demilitarizzata”. Dal 1953 in poi, la Corea del Sud vive teoricamente in pace, tecnicamente in guerra e in pratica è sotto costante assedio. I nordcoreani scavano tunnel sotto la zona demilitarizzata, si esercitano ad aggirarne le difese con mini-sommergibili, conducono manovre a ridosso della frontiera, in vista della (costantemente annunciata) ripresa delle ostilità. A volte si tratta di provocazioni molto sanguinose: una corvetta affondata (46 marinai morti), un’isola bombardata (4 morti e 19 feriti). In altri casi sono minacce di distruzione di massa: due esplosioni nucleari sotterranee in tre anni e quasi un test all’anno di missili balistici a lungo raggio. Fino all’ultimo lancio, quello del primo satellite nordcoreano, della settimana scorsa: è la dimostrazione che il regime di Pyongyang potrebbe, a breve, colpire anche gli Stati Uniti.

Di fronte a questa minaccia imminente, i sudcoreani hanno preferito votare in massa quella che è vista, prima di tutto, come la figlia di un uomo forte. Poi, come una candidata che promette la politica più rassicurante: ripresa del dialogo con la Corea del Nord e, al contempo, una forte difesa. Di fronte al crescente anti-americanismo, che prolifera in mezzo alla crisi economica, la Park mantiene un atteggiamento ambiguo: come il padre, è un’alleata fedele, ma lascia intendere che potrebbe sostituire Washington con Pechino. Il grande vicino asiatico, che nel 1950 intervenne al fianco dei nordcoreani, adesso appare come l’unica valvola di sicurezza della crisi: è l’unico Stato che rifornisce il Nord, ci dialoga e può indurlo a non perdere la testa. Si tratta solo di apparenza, comunque, perché se i nordcoreani sono così armati, è solo grazie agli aiuti del regime di Pechino. E una volta spezzato il legame fra Usa e Corea del Sud, nessuno garantisce che la Cina comunista non spinga (piuttosto che trattenere) la Corea del Nord alla guerra. Ma Park Geun-hye potrebbe preferire un ragionamento di breve periodo, farsi attrarre dal potente vicino, piuttosto che dal vecchio alleato in declino. E sarebbe, allora, la sua più grande contraddizione: la figlia dell’uomo forte di destra che si allea con l’ultima grande potenza comunista per fare la pace con il regime stalinista del Nord?


di Stefano Magni