Voglia secessione dalla nazione di Obama

giovedì 15 novembre 2012


Una settimana dopo la vittoria di Barack Obama, decine di migliaia di cittadini di due stati americani, il Texas e la Louisiana, non ce la fanno più a rimanere nell’Unione ed hanno espresso il loro dissenso con una petizione inviata alla Casa Bianca. Chiedono la secessione. Non sono i soli: anche minoranze ben visibili in Montana, North Dakota, Indiana, Mississippi, Kentucky, North Carolina, Alabama, Florida, Georgia, New Jersey, Colorado, Oregon, New York, Arizona, Arkansas, California, Illinois, Michigan, Missouri, South Carolina, Tennessee, Virginia, Wisconsin, Ohio, Kansas, West Virginia, Nebraska, Utah, Alaska, Pennsylvania, Wyoming, Oklahoma, Nevada e Delaware hanno promosso iniziative analoghe. Non raggiungendo i numeri delle firme sulle petizioni di Texas e Louisiana, ma lanciando un segnale chiaro: “ci siamo anche noi, non siamo tutti parte di una nazione per Obama”.

L’iniziativa, è bene ribadirlo, è partita dal Texas. La sua petizione secessionista avrebbe dovuto raggiungere le 25mila firme per ottenere (entro 30 giorni) una risposta pubblica da parte del presidente. Ne ha raggiunte 80mila in una settimana e il numero continua a crescere. Nel testo della petizione le ragioni del Texas sono esposte nero su bianco, con estrema lucidità: «Gli Stati Uniti continuano a soffrire le difficoltà economiche derivanti dalla negligenza del governo federale di riformare la spesa interna ed estera. I cittadini degli Stati Uniti soffrono di abusi evidenti dei loro diritti, come il NDAA (Legge per la Difesa Nazionale, sotto accusa perché prescrive detenzioni prive di termine anche per prigionieri non accusati e non condannati dalla magistratura, ndr), il TSA (Legge per la Sicurezza sui Trasporti, ndr)… Dal momento che lo Stato del Texas mantiene un bilancio in pareggio ed è la 15ma economia più prospera del mondo, è praticamente possibile per il Texas ritirarsi dall’Unione proteggendo i suoi standard di vita e i suoi cittadini, ripristinando i loro diritti e le loro libertà in conformità con le idee originali e le credenze dei nostri Padri Fondatori che non sono più il riferimento del governo federale».

La petizione della Louisiana ha superato le 32mila firme (ieri era a quota 32.886) e cita la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti: «Quando nel corso degli umani eventi, sorge la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto ad un altro ed assumere tra le potenze della terra, il separato ed uguale statuto a cui le Leggi della Natura e di Natura Dio gli danno diritto, è conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione». Prima di tutto, va detto che le petizioni di questi cittadini sono puramente simboliche. La Costituzione statunitense non contempla la possibilità di una secessione “pacifica” (come è specificamente richiesto nei documenti presentati alla Casa Bianca) e né il Texas, né la Louisiana avrebbero le forze sufficienti a dichiarare una secessione manu militari. Chi teme una seconda Guerra Civile, come quella che divise la Confederazione dall’Unione centocinquant’anni fa, si metta il cuore in pace. Una guerra, al momento, non è neppure nella mente di Dio.

Detto questo, però, le petizioni non devono essere sottovalutate. Sono un segnale politico forte. Tanto quanto lo furono i movimenti Tea Party nati nel 2009, all’indomani della prima vittoria di Barack Obama. Qual è il significato di questo segnale? Anzitutto è bene capire quello che non è: non si tratta di una manifestazione di nostalgia per la vecchia Confederazione sudista, perché, come abbiamo visto, le petizioni sono trasversali e riguardano anche molti stati “nordisti” (come l’Ohio, il New Jersey, il New York e l’Illinois, patria di Obama). Non si tratta di un rigurgito di razzismo, né dell’espressione della volontà di chiudere il confine meridionale, perché, se è vero che il Texas è uno stato che condivide la frontiera con il Messico, la multietnica Louisiana è tranquillamente incastonata fra Texas e Mississippi.

Il segnale, come si evince molto chiaramente dai testi delle “dichiarazioni di indipendenza” è puramente politico ed economico. Nelle elezioni presidenziali di martedì scorso si sono confrontati due opposti modelli di America: quella progressista che vuole assomigliare all’Europa e quella più libertaria che vuole rimanere un’eccezione di libertà nel mondo. Obama ha vinto perché è riuscito a catturare il cuore e le menti dei progressisti, Romney ha perso perché i veri conservatori del modello americano non hanno creduto in lui, considerandolo un uomo d’apparato come un altro. Difficilmente verranno capiti dai nostri media europei. Dalle nostre parti, infatti, si continua a ripetere la litania che “Romney ha perso perché si è spostato troppo a destra”. Oppure: ha perso “perché ha sposato la causa dei Tea Party” (che invece si sono astenuti dal votarlo). Al contrario, coloro che “non ci stanno” e arrivano a proporre una secessione, sono i delusi del sistema. Non vogliono Obama, vedono come un incubo la prospettiva di fare la fine degli europei, ma allo stesso tempo non si fidano più dei Repubblicani, troppo appiattiti sulle logiche consociative di Washington.

Esattamente come i Tea Party, i nuovi secessionisti sono contro la sinistra e delusi dalla destra. E per questo sono temuti dai conservatori “ufficiali”: «Questa marginale chiacchiera di secessione è assurda e controproducente – scrive Charles Cooke sulla National Review – è dovrebbe essere contrastata ed emarginata, con estrema decisione, dai conservatori di tutti i tipi». Eppure, se la “secessione” (che è solo simbolica, è bene ripeterlo) prenderà piede, i Repubblicani dovranno farci i conti. Così come, nel 2009 e nel 2010, sono dovuti scendere a patti con i Tea Party. In questo caso sarà più difficile. Perché dovrà essere affrontata una grave contraddizione storica: il Grand Old Party è il partito di Abraham Lincoln, il presidente che fece (e vinse) la guerra contro la Confederazione secessionista. Abbracciare un neo-secessionismo sarebbe una grave contraddizione storica per ogni repubblicano. C’è da dire, però, che anche i neo-secessionisti puntano il dito su una grande anomalia della storia: gli Stati Uniti sono nati da una secessione (dall’Impero Britannico, nel 1776). Pretendere che restino uniti a tutti i costi non è una contraddizione storica altrettanto forte?


di Stefano Magni