Petraeus: troppi dubbi sulle dimissioni

martedì 13 novembre 2012


Poche certezze e troppi dubbi circolano sulle dimissioni dell’ex generale David Petraeus dalla carica di direttore della Cia. La certezza è la causa immediata delle dimissioni. Non ci piove, ci sono le prove: da almeno un anno, l’Fbi, partendo dall’indagine su un caso di stalking, ha scoperto una sua relazione extraconiugale di Petraeus con Paula Broadwell, ufficiale riservista e autrice di “All In”, biografia (agiografica) del generale. Paula era la stalker. La sua vittima, Jill Kelley, era a sua volta sospettata di avere una relazione con il direttore della Cia. Petraeus si è dunque trovato in mezzo ad un litigio fra due “amanti” (una ammessa, l’altra solo presunta) e con un matrimonio, che durava da 37 anni, completamente rovinato. Bill Clinton non ha perso la poltrona presidenziale a causa della relazione con Monica Lewinski. Ma per il direttore della Cia, una relazioni coniugale è, se possibile, ancora più pericolosa, perché lo espone a ricatti che possono mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. Questa, almeno, è la spiegazione ufficiale. Secondo una spiegazione non ufficiale, ma caratteriale, Petraeus non è Clinton, è un militare e non un politico. E, tutto d’un pezzo qual è, ha deciso di chiamarsi fuori.

Fin qui abbiamo una certezza sulle cause immediate delle dimissioni. Ma sotto potrebbe esserci altro. Non dovrebbe stupire il tempismo delle dimissioni rispetto alla data delle elezioni. Quando è in gioco la sicurezza nazionale, l’azione deve essere bi-partisan, per cui è comprensibile che lo scandalo sia emerso a voto già concluso. Lascia molti dubbi, invece, il tempismo rispetto ad un altro evento importante: l’attacco al consolato di Bengasi dell’11 settembre 2012, in cui è stato assassinato l’ambasciatore statunitense in Libia. La Cia è doppiamente coinvolta: per non aver previsto i fatti e per essere stata presente sul campo durante l’assalto. Sono tanti gli interrogativi senza risposta riguardo ai tragici eventi di due mesi fa. Lo storico Victor Davis Hanson prova ad elencarli tutti nel suo ultimo articolo sulla National Review: «Perché c’era un consolato americano a Bengasi, considerando il fatto che molti Paesi avevano addirittura chiuso le loro ambasciate a Tripoli? Perché c’era una presenza così massiccia della Cia nelle vicinanze? Cosa stavano facendo, perché e per chi? Perché l’ambasciatore riteneva necessaria più sicurezza, quando c’erano così tanti agenti della Cia dislocati a soli pochi minuti di distanza? Qual era il ruolo di sicurezza esercitato dalla sede della Cia a protezione del consolato? E perché tutto questo silenzio? Quali erano, esattamente, i gruppi terroristi che hanno colpito il consolato, avevano un programma particolare? Se sì, per cosa e per chi agivano?»

Gli interrogativi che si pone Victor Davis Hanson fanno riflettere anche su altre domande senza risposta, questa volta sulla stessa carriera di Petraeus. Il generale ha infatti compiuto tutte le tappe di una brillante carriera militare. Per finire nel ruolo di un civile, nei panni del direttore dell’agenzia di intelligence. Petraeus, noto come uno dei più intellettuali (laureato ed esperto di Relazioni Internazionali) ufficiali statunitensi, si era distinto nella guerra in Iraq, nel 2003, come comandante della 101^ divisione d’assalto aereo. Guidò lui l’ampia manovra di aggiramento sul fianco destro dell’esercito iracheno, che si concluse vittoriosamente a Najaf, ultimo scontro con l’esercito di Saddam prima della presa di Baghdad. Ma più che come comandante di operazioni convenzionali, David Petraeus si è fatto un nome per la sua strategia di contro-insurrezione, ispirata ai metodi impiegati dai francesi nell’ultima fase della guerra di Algeria. Sua idea centrale era quella di: «Servire e rendere sicura la popolazione – come scriveva in un suo vecchio articolo per la Heritage Foundation – Il terreno decisivo per vincere una campagna di contro-insurrezione non è un altura o un ponte, come in una classica operazione militare, ma il “terreno umano”. Devi capire la gente. Sapere come funzionano le sue strutture sociali, le tribù, gli elementi religiosi, i partiti politici, come dovrebbe funzionare il sistema e come invece funziona realmente». Petraeus riuscì, in modo molto efficace, a separare Al Qaeda dalla popolazione sunnita irachena. E trasformò un pantano, che durava ormai da tre anni, in un successo. Nel 2008, dopo un anno e mezzo di cura Petraeus, la possibilità di una guerra civile in Iraq era scongiurata e il Paese era già abbastanza stabilizzato da consentire un onorevole disimpegno statunitense. A questo punto ci si sarebbe attesi una carriera del generale fino al vertice degli Stati Maggiori Riuniti. Il primo passo lo aveva già compiuto, con la promozione a comandante del Centcom (il comando Usa per il Medio Oriente allargato). Ma l’ascesa si è fermata lì. Obama, nel 2009, lo ha posto al comando delle operazioni in Afghanistan, sostituendo Stanley McChrystal (a causa dei suoi commenti sul presidente). Ma anche l’esperienza afgana è durata poco. Perché è giunta, a sorpresa, la sua nomina a nuovo direttore della Cia, dopo la cooptazione di Leon Panetta al Segretariato della Difesa.

Sulla nomina di Petraeus alla Cia sono circolate da subito due versioni. Una cattiva: il presidente democratico lo temeva come potenziale rivale nelle elezioni del 2012 e mal sopportava le critiche che gli stava muovendo sulla gestione della guerra in Afghanistan. Dunque lo avrebbe piazzato in una posizione più sotto controllo. L’altra versione è più benevola: proprio grazie alla sua strategia di contro-insurrezione, chi meglio di Petraeus avrebbe saputo coordinare le operazioni segrete contro gli jihadisti?

In ogni caso, proprio quando l’eroe dell’Iraq era alla testa della Cia, l’ambasciatore in Libia è stato ucciso. Dai rapporti di prima mano che iniziano ad emergere, leggiamo che gli agenti Cia, così come i militari, avrebbero voluto intervenire, ma a loro è stato negato il permesso di agire. Sappiamo anche che, due settimane fa, Petraeus era al Cairo. Sulle tracce dei terroristi che hanno attaccato il consolato e ucciso l’ambasciatore. C’è ancora molto da scoprire su quel che è avvenuto a Bengasi lo scorso 11 settembre. E moltissimo rimarrà irrisolto con le dimissioni dell’ex direttore della Cia. All’indomani dello scandalo, è saltata la sua audizione alla Camera, sul caso libico.


di Stefano Magni