Cronaca di una nottataccia al Gop

giovedì 8 novembre 2012


«It’s over» è finita. È il laconico commento che si diffonde, mestamente, quando arriva la notizia che Barack Obama ha vinto in Ohio, lo stato chiave di queste elezioni. Nella sala riunione dell’Americans for Tax Reform, la potente lobby anti-tasse, fondata e guidata da Grover Norquist, i militanti repubblicani e gli intellettuali liberisti se ne vanno con la coda fra le gambe. La speranza per una vittoria di Mitt Romney è svanita minuto dopo minuto. A dire il vero, l’ottimismo non ha mai caratterizzato questi repubblicani riunitisi nell’Atr per assistere alla lunga notte elettorale. «Sono pessimista. Credo proprio che Obama verrà riconfermato» – ci dice subito Hadley Heath, una brillante e bella ragazza conservatrice, analista politica dell’Independent Women’s Forum. E ce lo dice mentre non ci sono che pochi exit polls.

Questa impressione si consolida durante la serata. Il primo colpo duro arriva alle 10 di sera, quando si sa che il presidente ha vinto la Pennsylvania. Ma era prevedibile. Solo Dick Morris e qualche altro opinion maker conservatore pensava di poter ribaltare le sorti dello stato democratico dove i nordisti vinsero la guerra nella battaglia di Gettysburg. Un colpo ancora più duro arriva pochi minuti dopo: anche il New Hampshire è perduto. Non si trattava di una roccaforte del Gop, sicuramente, ma era un “barometro” secondo analisti ed esponenti del partito dell’elefantino. Se si fosse vinto nel New Hampshire, si diceva prima del voto, voleva dire che Romney avrebbe potuto vincere ovunque. Ma tutti gli occhi erano puntati sulla Florida. Dove ci si attendeva una vittoria rapida del candidato repubblicano. Ma che invece restava inchiodata su un logorante testa-a-testa. Come una finale di calcio che finisce ai rigori. «Sono molto preoccupato per quello che sta avvenendo laggiù – ci confida Edward Hudgins, della Atlas Society, un think tank che promuove la filosofia di Ayn Rand (egoismo razionale e libero mercato) – se le cose fossero andate per il verso giusto, Romney avrebbe già vinto da un pezzo. Il fatto che sia ancora così impantanato in un testa-a-testa è un brutto sintomo». A causa della Florida, tutte le buone notizie (dal punto di vista repubblicano) passano in secondo piano. Quasi nessuno si accorge che il Gop ha riconfermato la sua maggioranza alla Camera. E pochi gioiscono nel vedere tutta l’immensa regione della “cintura biblica” tingersi di rosso, il colore dei Repubblicani. Sono successi che vengono dati per scontati. Gli occhi sono già puntati sull’Ohio. Anche la North Carolina si colora di rosso. Parte qualche applauso di consolazione.

La speranza si riaccende: se la Florida tiene, l’Ohio viene conquistato, Virginia e Colorado vengono espugnati, Romney ce la può ancora fare. Ma ci si rende conto, sin da subito, che è una missione impossibile: dovrebbe verificarsi una vittoria in 5 stati in bilico su 5. E i numeri non ci sono. L’Ohio dà il colpo di grazia. La partita è chiusa: Obama vince in quello stato per meno di un punto percentuale, ma vince le elezioni matematicamente, assicurandosi un numero di Grandi Elettori superiore alla fatidica soglia dei 270. C’è spazio per un epilogo surreale: da Fox News arriva la notizia che l’Ohio, forse, è stato richiamato. Che non è affatto stata assegnata la vittoria al presidente in carica. La sala torna a riempirsi, torna qualche sorriso, qualcuno salta di gioia. Ma è una breve illusione che scoppia subito come una bolla di sapone. Lasciando spazio solo alla tristezza dei volontari che impilano le sedie e sparecchiano i banchetti. Un solo uomo, palesemente ubriaco, festeggia in mezzo alla folla silente. «Abbiamo altri 4 anni! Voi dovete essere felici! Abbiamo un grande presidente! Gli faranno un monumento nel National Mall!», vaneggia. Un anziano lo manda a quel paese. E la scena finisce subito. Ci dicono che fosse realmente un militante democratico, venuto apposta a rovinare la “festa”.

La sede dell’Americans for Tax Reform, in pieno centro di Washington Dc, diventa un’isola di silenziosa tristezza in mezzo ad una città in trionfo. Qui nella capitale il presidente Obama è stato rieletto con una percentuale bulgara: il 91,4% dei voti. Le strade si trasformano subito in una parata della vittoria. Una parata dei progressisti, che scampanellano sulle loro biciclette: colonne dopo colonne di biciclette, eco-compatibili e sostenibili, montate da ragazzi e ragazze di età universitaria. O da uomini di mezza età che si sentono giovani dentro. Due afro-americani, davanti a un supermercato improvvisano una danza tribale in onore del presidente venuto dal Kenya. Tutto attorno a loro, studenti e signore dall’aria sessantottina cercano di seguire il loro ritmo e li applaudono. Partono i fuochi d’artificio. Fino alle ore piccole, la città è tutto un risuonar di clacson e cori da stadio. Pare quasi di aver vinto una guerra. E per molti americani di Washington è così: la loro America, fatta di impieghi pubblici, servizi sociali, università e studi d’avvocati ha prevalso sull’altra America, quella “cattiva” delle province conservatrici, religiose e amanti della libera iniziativa, che assediano le grandi città.

Eppure quale è la vittoria? I successi invisibili dei Repubblicani si chiamano: maggioranza alla Camera, potere di ostruzionismo al Senato e un voto popolare (misurato su tutti i cittadini americani, indipendentemente dagli stati) diviso letteralmente a metà. Barack Obama è ancora un presidente dimezzato, come dopo le elezioni del 2010. Controlla l’esecutivo, ma può trovare una barriera impassabile nel Congresso. Numericamente parlando, ha dimostrato di essere scelto solo dalla metà degli americani che sono andati a votare. La prossima grande prova, per lui, si chiama “fiscal cliff”, letteralmente: abisso fiscale, il momento in cui i conti pubblici esigeranno un innalzamento delle tasse, o un innalzamento del tetto del debito consentito (il “debt ceiling”). Su questo i Repubblicani promettono battaglia. E il rinnovato presidente non ha ancora i numeri per vincerla senza scendere a costosi compromessi.

Dalla parte degli sconfitti, si impone una nuova revisione. Il Partito repubblicano si è già profondamente rinnovato negli ultimi 4 anni. Grazie al movimento Tea Party, ha riadottato un programma per limitare il potere dello stato, coerentemente con la dottrina del conservatorismo contemporaneo. Tuttavia, in Romney, il Gop non ha saputo trovare un portavoce sufficientemente convincente di questa filosofia. Tanto è vero che in Ohio i Repubblicani hanno perso anche a causa del voto libertario, che si è orientato su Gary Johnson (Libertarian Party) sottraendo voti preziosi al loro candidato.

«Mitt Romney ha speso molte delle sue energie per spiegare alla gente quanto fosse genuinamente convinto di ridurre il potere dello Stato – ci spiega Daniel Mitchell, economista del think tank libertario Cato Institute – quando sei posto di fronte alla scelta fra uno statalista ed un anti-statalista, ma dai il voto a un terzo partito, è ovvio che la tua è un’azione di protesta e di sfiducia. Io penso che Romney, fin dall’inizio, non fosse un candidato forte. Per esempio, non ha mai potuto attaccare fino in fondo Obama sulla riforma sanitaria, perché lui stesso ne ha promossa una simile nel Massachusetts, quando ne era il governatore». Ma quali lezioni può apprendere il Partito repubblicano da questa sconfitta? «Un lungo periodo di prognosi. Ma sono grandi le possibilità di vittoria nel 2016, perché ci sono potenzialmente degli ottimi candidati nella nuova generazione, come Rand Paul, Marco Rubio, lo stesso Paul Ryan. Romney dobbiamo giudicarlo come l’ultimo di una generazione di politici dell’establishment dell’era Bush, una classe dirigente che, a suo tempo, ha accettato lo statalismo e non ha difeso la libertà individuale. I nuovi potenziali candidati, invece, sono tutti molto più coerenti e molto più simili a Ronald Reagan».


di Stefano Magni