Passeggiata per Dupont Circle

martedì 6 novembre 2012


Oggi si vota e le incognite si moltiplicano. Che effetto avrà avuto l’uragano Sandy? Che effetto farà l’endorsement dell’ultimo giorno, dato ad Obama dal generale Colin Powell, il generale che vinse la Guerra del Golfo nel 1991 e che tuttora è un idolo per molti conservatori? Per chi penseranno di votare gli indipendenti che sinora non hanno ancora preso una decisione? 

E fra questi c’è un’ulteriore incognita, solitamente ignorata dai media, ma numericamente imponente: il 15-20% di elettori che non si identificano in nessuno dei due grandi partiti, perché sono liberals per quanto riguarda la libertà personale (come la legalizzazione della droga, il diritto di aborto, i matrimoni omosessuali), ma conservatori in economia (meno tasse, meno regole, più libertà di mercato). 

Sono tutti coloro che vengono genericamente definiti “libertari”. Passeggiando per Dupont Circle, nel centro di Washington, notiamo alcuni curiosi cartelli blu-rossi che invitano a votare Bruce Major, «un libertario per il Congresso». Il Partito Libertario è la terza formazione d’America. Oggi si presenta con il suo candidato alla presidenza, Gary Johnson, ex governatore del New Mexico. Ma non è affatto l’unico (e neppure il principale, a giudicare dai voti) ricettacolo dei voti libertari. 

La prima cosa che viene in mente, quando pensiamo alla campagna delle primarie repubblicane, è il gran rumore che ha fatto Ron Paul, con la sua campagna per una rivoluzione libertaria nel Gop prima ancora che in America. Eppure anche qui si rischia di fare confusione, perché molti conservatori e persino parecchi progressisti (attratti dal suo messaggio non interventista in politica estera, che tanto ricorda il pacifismo) avrebbero votato volentieri per Ron Paul. Mentre altri libertari erano (già durante le primarie) più orientati a votare per Romney e una minoranza anche per Obama. Oggi, tutto questo patrimonio di voti del 15-20% dove andrà a finire? L’Opinione ne ha parlato con Al Canata, del Competitive Enterprise Institute. 

Lo abbiamo incontrato in uno scenario che più americano di così non si può: in una caffetteria di un centro commerciale nella provincia della Virginia. Tutto attorno ci sono ancora tracce di un rapido passaggio della campagna di Mitt Romney: bandiere americane piazzate attorno a una pompa di benzina, un vecchio pick-up con i cartelloni Romney/Ryan, qualche simpatizzante che ci saluta festante, sventolando i vessilli rossi dei Repubblicani. Questa scena rurale contrasta violentemente con la gigantesca metropoli (tutta democratica) di Washington DC, dove circolano solo le Toyota Prius con gli adesivi Obama/Biden. Eppure siamo solo ad una manciata di km di distanza. Siamo giusto in una terra di confine. 

L’ideale per parlare del voto di indipendenti e libertari, anch’essi in un limbo sospeso fra la destra e la sinistra. «Io penso che molti dei libertari che avevano optato per Obama, ora stiano riflettendo sui risultati dei quattro anni di amministrazione – ci risponde Al Canata – Puoi simpatizzare quanto vuoi con le sue idee sulla società e la libertà personale, ma queste ultime diventano secondarie quando stai facendo bancarotta. Per questo credo che chi si identifica con il libertarismo possa votare soprattutto per Mitt Romney, oltre che per Gary Johnson». Anche la politica estera, però, ha diviso molto i libertari dai conservatori. «I primi sono chiaramente non interventisti. Coloro che votano perché maggiormente interessati alla politica estera, oggi non troverebbero attraente Obama, così come Romney, entrambi molto interventisti. Quel tipo di voto verrà dunque interamente assorbito da Gary Johnson. O dall’astensionismo. Ma non farà alcuna differenza nella competizione fra i due candidati principali». 

E dove sarà mai finito tutto il movimento di Ron Paul? E’ sparito o sarà ancora determinante in queste elezioni? «Non credo che sia sparito. Ed è ormai chiaro che quell’elettorato non voterà per Romney. Più probabilmente il loro voto si distribuirà fra Gary Johnson e l’astensionismo». Ma allora sarà possibile assistere alla sorpresa di una corsa a tre candidati? «No, la vedo dura, per una questione di numeri. E’ stato possibile assistere ad uno scenario di tre candidati solo 20 anni fa, con Ross Perot che sfidava sia Clinton che Bush. Ma quel fenomeno era già visibile da mesi, prima delle elezioni. Oggi penso che non si ripeterà. 

E’ possibile, però, che in alcuni stati in bilico, i voti di Gary Johnson favoriscano Obama». Si riferisce soprattutto al Colorado, dove la competizione fra Obama e Romney è talmente serrata che anche la sola presenza di Johnson e della sua campagna a favore della legalizzazione delle droghe leggere, può creare panico e scompiglio nei partiti maggiori.

Sarebbe incredibile vincere o perdere le elezioni per qualche canna libera in più. Eppure è possibile, in un’America divisa a metà, dove nessun sondaggista si azzarda a fare una previsione che è una sul risultato di domani mattina. E dove si teme che il processo di conta dei voti possa durare addirittura 10 giorni, specie nel determinante Ohio. Romney può comunque sempre sventolare lo spauracchio del socialismo europeo, se dovesse perdere. «Diventeremo come l’Italia» è una prospettiva minacciosa. 

«Beh, nessuno di noi odia il vostro cibo, la vostra natura o il vostro patrimonio artistico… – ci dice ridacchiando Al Canata, che è di origine italiana (ligure, per la precisione) – ma è un problema di debito pubblico, di spesa fuori controllo e di tasse troppo alte. 

L’europeizzazione o italianizzazione dell’America è purtroppo possibile. L’Obamacare, la parziale socializzazione della sanità, è un chiaro passo in questa direzione. Sarebbe veramente grave se anche la nostra società diventasse un insieme di individui che dipendono dallo Stato».

E chi vincerà? Lo vedremo domani. Se vince Barack Obama, gli americani inizino a spostare regolare l’orologio 6 ore (9 ore, per i californiani) in avanti…


di Stefano Magni