Le contraddizioni di Obama all'Onu

sabato 29 settembre 2012


Sono passati quasi quattro anni dall’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. Più di uno dalla morte di Osama Bin Laden e ben dodici anni dall’attacco alle Torri Gemelle di New York. Il presidente americano parla all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite da premio Nobel, ma il suo discorso è quello di un paese in guerra.

Il 9 ottobre 2009 il comitato di Oslo gli conferisce il  Nobel per la Pace con questa motivazione: «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli». Un riconoscimento dato sulla fiducia. La dottrina che questa amministrazione segue in politica estera confida nelle organizzazioni internazionali. Sono celebri ormai i suoi discorsi di apertura, il lottare insieme all’islam moderato per sconfiggere il cancro fondamentalista. Quanto affermato pochi giorni fa all’Onu si iscrive in questo filone e non ci sarebbe nulla da recriminare se i fatti non gli dessero torto: la condizione americana nel mondo resta difficile.

Bastone e carota sono ormai i termini più comuni per descrivere gli strumenti di scuola democratica e Obama le ripropone ancora una volta mascherate da frasi intrise di idealismo. Parla dell’importanza della libertà di parola, di tirannia e di un approccio più deciso in Libia. «Gli Stati Uniti si uniranno con la libertà dei musulmani in un fronte comune contro i terroristi». Inveisce contro Assad. Poi si rivolge al regime iraniano: «Gli Stati Uniti sono pronti a intervenire militarmente, qualora si riveli impossibile una soluzione diplomatica». L’America è ancora in guerra e quanto accaduto lo scorso 12 settembre a Bengasi ce lo ha ricordato. Il grave errore commesso da Obama in questi anni è di averci fatto credere che tutto, dopo la morte di Bin Laden, fosse ormai finito.

Cercando di discostarsi dalla politica neocon ha sottovalutato le condizioni esistenti, trascinando con se buona parte dell’opinione pubblica occidentale. Mentre il fondamentalismo islamico dilagava in Medio Oriente e in Africa. Sperava di combattere il terrorismo in modo più efficace del suo predecessore semplicmente negando la sua esistenza. Sperava che un approccio scientifico avrebbe favorito la pace e la totale affermazione di una cultura moderata nel mondo islamico. Anche se al presidente americano non piace parlarne e, stando a un primo bilancio del suo discorso, possiamo affermare che la Guerra al Terrore dichiarata da Bush purtroppo non è mai finita. L’uomo più potente del mondo odia la guerra, ma la pace si fa in due. E la fiducia non basta.


di Michele Di Lollo