martedì 25 settembre 2012
Primavera araba potrebbe essere il nome di un drink. Uno di quelli forti, che si beve ad occhi chiusi per non pensarci più. Solo che poi il risveglio è durissimo. C’è molto su cui riflettere. Ci sono tutti i nodi che l’Occidente si è rifiutato di affrontare e che ora vengono furiosamente al pettine. Sgombrato il campo dalla falsa idea che un film semi-sconosciuto, per quanto deplorevole, possa aver scatenato l’ondata di violenza che è costata la vita all’ambasciatore Chris Stevens e ad altri innocenti (ma anche se si fosse trattato davvero di una reazione spontanea alla diffusione della pellicola ritenuta blasfema, non dovremmo porci qualche domanda?), quello che alcuni analisti chiamano risveglio arabo è l’ovvia conseguenza del vuoto di potere creatosi dopo la caduta dei vecchi regimi in Egitto, Tunisia e Libia.
Magari era proprio nel timore di scenari come questi che qualcuno aveva manifestato qualche perplessità sull’opportunità di intervenire militarmente contro Gheddafi, sentendosi accusare di simpatie filo-tiranniche e opportunismo economico, mentre i dubbi su una guerra che ha cambiato il destino della Libia erano più che giustificati, anche per le modalità con cui è stata decisa e condotta: la Francia ha lanciato l’idea, l’Europa si è accodata, l’America ha fatto il minimo indispensabile, l’opposizione della Russia è stata facilmente aggirata, l’opinione pubblica non ha obiettato più che tanto, e il pacifismo d’ordinanza non si è fatto né vedere né sentire. Un ottimo ritorno d’immagine (l’Occidente che si muove per sostenere il popolo libico nella cacciata del suo odioso dittatore) con relativo poco sforzo.
Tutto bene, dunque? Proprio no. Perché la fine di Gheddafi e il sostegno incondizionato ai giovani protagonisti della primavera araba avevano un significato e un valore che è stato totalmente rinnegato all’alba delle rivolte in Siria. L’Occidente che si illude di poter intervenire a seconda delle circostanze e senza prendersi la responsabilità delle conseguenze delle sue azioni – materiali e morali – è lo stesso che è caduto dal letto la mattina dell’assalto al consolato americano di Bengasi e dell’uccisione dell’ambasciatore Stevens. È stato il totale disimpegno americano ed europeo per la repressione e la distruzione di intere città e popolazioni siriane a creare le condizioni per l’esplosione di violenza che sta infiammando i paesi arabi. Perché il messaggio è stato chiaro: l’Occidente si è schierato a favore di un non meglio specificato processo di democratizzazione, ha armato i ribelli ed è intervenuto militarmente senza preoccuparsi di gestire il passaggio dalla guerra civile ad un nuovo ordinamento.
Caduti i vecchi dittatori, succeda quel che succeda. E infatti è successo. Illusasi, forse, di poter contare sul sostegno occidentale, la rivolta si è estesa fino in Siria, dove si è arrestata non tanto a causa della repressione, quanto dell’indifferenza e del realismo pavido di un’America alle prese con la campagna elettorale per le presidenziali, e di un’Europa che senza le alzate di scudi della Francia di Sarkozy non sarebbe andata nemmeno in Libia (non è curioso che Obama punti sull’immobilismo per essere rieletto mentre l’ex presidente francese abbia tentato la carta della guerra a scopo umanitario per lo stesso motivo?). Quello che resta, è la definitiva presa di coscienza da parte degli integralisti della capacità dissuasiva dell’Iran.
I suoi alleati, Siria in primis, non si toccano; Hezbollah, in Libano e nella striscia di Gaza, si fa ogni giorno più minaccioso e aggressivo nei confronti di un Israele sempre più odiato, isolato e circondato, ed anche quando gli Stati Uniti vengono attaccati durissimamente con un’azione chiaramente premeditata e preparata per mesi, non a caso perpetrata nei giorni dell’anniversario dell’11 settembre, l’Occidente non trova di meglio che scagliarsi contro le presunte responsabilità di un film semi-ignoto spingendosi, per voce di qualche intellettuale europeo, ad ipotizzare l’istituzione di una nuova fattispecie di reato che punisca il presunto vilipendio al sentimento religioso islamico. E il governo americano arriva persino a scusarsi mentre le sue bandiere bruciano e le sue ambasciate vengono assaltate.
Certo, Obama - il presidente meno incline alla politica estera della storia americana - ha promesso di dare la caccia e punire i responsabili della morte di Chris Stevens e dei suoi collaboratori, ha mosso uomini e mezzi, ma mostrare i muscoli e chiedere scusa è una contraddizione che non risolverà nulla. Volenti o nolenti abbiamo spianato la strada alla presa di potere degli estremisti in Libia ed Egitto mostrandoci superficiali, pavidi, inetti. Il risultato è l’esplosione di una bomba ad orologeria i cui danni non sono attualmente calcolabili e le cui conseguenze sono indecifrabili. Quel che è certo, è che i ribelli siriani che abbiamo abbandonato al proprio destino li piangeremo per molto tempo.
di Valentina Meliadò