La libertà della giovane Ebla Ahmed

sabato 15 settembre 2012


Ebla Ahmed è il (bel) volto di una generazione di musulmani nati e cresciuti a cavallo di due mondi, l’Occidente e il Medio Oriente. Avvocatessa trentatreenne, nata a Firenze da madre italiana e padre yemenita, è cresciuta fra il Regno Unito, l’Italia e lo Yemen, dove ha vissuto la sua gioventù. Dice di non essere madrelingua italiana, anche se nel suo linguaggio non si nota alcuna imperfezione (se non un lieve accento toscano). Nota ai lettori italiani per i suoi articoli, a volte dolenti, molte più volte ironici, sul giornale Yalla Italia (il giornale delle “seconde generazioni” di immigrati musulmani in Italia), ha pubblicato su Internet una raccolta di racconti erotici, “L’amore ai tempi di Bin Laden” (in ebook, edito da Atlantis). Sono storie di scoperta della propria femminilità, ambientate a Sanaa, la capitale yemenita. Storie personali, di amore e di sensualità. Il titolo non è casuale: la famiglia Bin Laden è originaria proprio dello Yemen.

E, oggi, pensare a quel “lontano” Paese nell’estremo Sud della penisola araba, evoca immagini di violenza e di terrorismo, di ribellione (riuscita, con la cacciata del dittatore Alì Abdullah Saleh) e di guerriglie infinite. Descrivere uno Yemen inconsueto, quello della segreta sensualità delle donne, non è opera facile. E il libro ha attirato anche attenzioni non desiderate: Ebla Ahmed ha ricevuto minacce esplicite. L’Opinione l’ha intervistata proprio in un periodo in cui lo Yemen torna a far parlare di sé per una vicenda di violenza: l’assalto all’ambasciata americana di Sanaa, uno dei tanti episodi della nuova sollevazione globale islamica contro un film considerato “blasfemo”, uscito solo su YouTube. «Io, prima di tutto, sono favorevole alla libertà di espressione – ci spiega Ebla Ahmed – Certo, è ovvio che, toccando una religione, si vanno a suscitare reazione di sdegno. Su questo sono drastica: non mi piace che le religioni vengano prese in giro, di qualsiasi fede si parli. Ritengo che sia normale una protesta, una critica, una manifestazione. Ma mai fino ad arrivare a violenze come quelle che vediamo in questi giorni. Lo Yemen, adesso, è nelle mani di Al Qaeda e agli integralisti: usano anche questo film come pretesto per scatenarsi. In un periodo come questo, fare un film o scrivere un libro contro la religione è come buttare un fiammifero sulla legna secca».

Lo Yemen, adesso, è conosciuto come la patria di Al Qaeda. Ma è sempre stato così?
Alì Abdullah Saleh era un dittatore, ma era sempre stato contrario all’integralismo islamico, specialmente nel suo primo periodo di governo. Lo Yemen, per come l’ho conosciuto io, era un Paese bellissimo. Aveva una maggioranza islamica, ma conviveva pacificamente con una grande comunità ebraica. Soprattutto nell’ultimo anno, dopo la Primavera Araba e la cacciata di Saleh, gli integralisti sono diventati dominanti. Quando cacci un tiranno e non sai quale governo si insedierà dopo, questo è l’esito scontato. Quando vivevo nello Yemen, benché non ci fosse un governo democratico, non c’erano leggi che imponessero lo hijab (il velo integrale islamico, ndr). Mio padre è uno yemenita musulmano, ma non mi ha mai creato problemi in questo senso. Oggi il Paese è invivibile per le donne: sono costrette a coprirsi, a non farsi neppure vedere.

Quando è iniziata questa drastica trasformazione del Paese?
Anche quando c’era Saleh, la situazione stava diventando incontrollabile. I “barbuti”, come io chiamo gli integralisti, erano stati sottovalutati. E questo è stato il principale errore del dittatore: considerarli pochi e non pericolosi. Piano piano, loro hanno iniziato a dilagare e a prendere il controllo. Adesso, nel momento in cui non sappiamo neppure bene chi sia al governo ufficialmente, il potere, di fatto, lo tengono loro. Io ho ancora una casa nello Yemen, ma so che non ci posso tornare.

Quando lei ha scritto l’ebook “L’amore ai tempi di Bin Laden”, qual è stata la reazione?
Quando è stata pubblicata l’anteprima del libro online e ho iniziato a diffonderlo anche sui social network, sono stata minacciata. Non di morte, ma minacciata. Un gruppo pakistano mi ha pesantemente offesa. Ho sporto denuncia: la minaccia non mi è arrivata in forma anonima. Lo hanno letto, perché l’anteprima era stata scritta anche in inglese e nella loro lingua, in urdu. Ma penso anche che non sia un problema di testo. Ho pubblicato anche delle foto che possono aver scatenato la polemica: il vestito tradizionale yemenita quasi trasparente, tengo sul seno semi-scoperto il pugnale yemenita, lo Jambiyah, simbolo di potere maschile. L’editore, Atlantis, è specializzato in racconti erotici. E, il mio, è il loro primo libro, scritto da una musulmana, yemenita, in un momento come questo. L’ebook, comunque, è assolutamente casto. Il messaggio è: le donne yemenite hanno una sensualità che in Occidente si è persa. Puoi fisicamente rinchiudere una donna in un burqa, ma non potrai mai chiudere la sua mente. L’ho ambientato a Sanaa apposta. Il mio intento è chiaro: dire che lo Yemen è nostro, è degli yemeniti, non appartiene ad Al Qaeda, che non è neppure yemenita, ma un’organizzazione internazionale. Lo Yemen, nel suo passato, anche remoto (basti pensare alla regina di Saba) è sempre stato in mano a donne.

Lei si aspettava una reazione simile?
Sinceramente no. Avrei pensato a qualche critica, al massimo, da parte delle comunità musulmane in Italia. Negli articoli che scrivo per Yalla Italia, a volte suscitano polemiche. Ma non avrei mai pensato di ricevere minacce. Perché, ribadisco, i miei sono racconti casti. Forse mi sbagliavo. Forse siamo arrivati a un punto in cui non puoi neppure scrivere cose che non toccano neppure la religione, senza esser minacciata da gruppi fondamentalisti. E, per me, non è nemmeno più una questione religiosa: è politica. Non esiste religione al mondo che predichi l’assassinio. Ci sono “teste calde” che predicano la violenza, per ideologia, per politica. E, a mio avviso, per stupidità. Io sono musulmana per scelta: sono nata da una famiglia mista. Ho imparato che non esiste una fede superiore all’altra.

Si distingue sempre fra Islam moderato e fondamentalista. Ma perché si sente parlare solo il secondo?
L’Islam moderato esiste. Io sono un esempio, ma ne conosco tantissimi altri. L’integralismo è un male da combattere, che resta in tutte le religioni, non solo nell’Islam. Personalmente, non ho gli strumenti per combattere l’Islam fondamentalista. Ma voglio ribadirlo: l’Islam moderato esiste. E i moderati dovrebbero farsi vedere di più, dovrebbero farsi sentire e rispettare di più. Io ho dato il mio piccolissimo contributo, se non altro per far capire alla gente che “non siamo tutti così”. Se non fai nulla per fermare l’integralismo, è ovvio che continuerà a crescere.


di Stefano Magni