Iraq: Al Hashemi in fuga per la vita

martedì 11 settembre 2012


Avere un vicepresidente (seconda carica dello Stato) in fuga, con una condanna a morte che pende sulla sua testa, non è propriamente un indice di stabilità politica. Ebbene: questo è l’Iraq di oggi. Il vicepresidente Tariq al Hashemi è fuggito in Turchia l’anno scorso, quando è iniziato un processo a suo carico per terrorismo e banda armata.

Al Hashemi, un sunnita laico e leader del partito Al Iraqiya, è sospettato per la conduzione di atti di terrorismo e guerriglia contro la maggioranza sciita del Paese. Nel corso delle violenze settarie del 2004 e oltre, avrebbe contribuito a formare squadroni della morte, intenti a terrorizzare e massacrare i civili sciiti. L’equilibrio fra sunniti e sciiti, benché instabile, ha retto (nel senso che non ha dato adito ad una vera e propria guerra civile) finché sul territorio erano presenti le truppe anglo-americane e gli altri contingenti alleati.

La crisi attuale è figlia del ritiro statunitense: dopo la partenza delle ultime truppe combattenti nel 2011, lo scontro latente è arrivato sino alle massime cariche dello Stato. E rischia, a questo punto, di dividere il Paese. Il primo ministro sciita, Nouri al Maliki, è stato uno dei più accesi sostenitori del processo ad Al Hashemi. Il verdetto emesso la settimana scorsa non dà scampo: condanna a morte. E intanto, anche senza aver bisogno di sentenze, i morti negli scontri settari continuano a crescere. Solo la scorsa domenica sono morti 92 civili iracheni e altri 350 sono rimasti feriti in una serie di attentati. I sunniti temono di aver perso del tutto la loro cittadinanza: erano al potere ai tempi di Saddam Hussein, ora sono una minoranza. Accusano Maliki di voler negare loro le risorse petrolifere (che sono soprattutto nel Sud sciita) e di non rappresentare i loro interessi in sede istituzionale.

Dal suo esilio volontario in Turchia, al Hashemi, ieri, ha lanciato strali contro la nuova leadership irachena. Ha accusato la magistratura irachena di non essere indipendente, ma uno strumento nelle mani del governo sciita. Per questo motivo, si è detto disposto ad affrontare un processo equo, ma non in Iraq. Ha accusato gli americani di voler chiudere un occhio sulla “condotta disastrosa” di Maliki, solo per motivi interni, elettorali. Ed ha lanciato un’accusa all’Iran, che pure non ha nominato esplicitamente, quando ha parlato di “potenze straniere” che condizionano gli affari interni dell’Iraq. L’Iran ha sempre tenuto un piede nella porta del vicino, anche armando le milizie sciite nei peggiori momenti di guerriglia civile. 


di Stefano Magni