L'immigrazione italiana negli Usa

domenica 19 agosto 2012


Nella descrizione dei rapporti tra Italia e Usa l’emigrazione italiana ha un ruolo fondamentale. La Fondazione Migrantes pubblica dal 2006 il rapporto annuale sugli Italiani nel mondo, insostituibile punto di riferimento per chi si occupa di questo tema. Abbiamo chiesto alla redattrice capo del progetto, Delfina Licata, di parlarcene. Come è nata l’idea? L’idea è nata nel 2006: da 15 anni insieme alla Caritas realizzavamo un volume sulla presenza degli immigrati in Italia, e si decise di far presa sulle coscienze ricordando il nostro passato emigratorio. La nostra idea di emigrazione italiana legata al passato è diversa dalla realtà dei fatti. Gli italiani continuano a lasciare l’Italia oggi con motivazioni e numeri diversi: il volume parte dal passato ma attualizza gli argomenti e arriva all’oggi, grazie a redattori dalle diverse professionalità – storici, sociologi, economisti, architetti, artisti – che scrivono dall’Italia e dall’estero.

Quali numeri hanno contraddistinto l’emigrazione e la presenza italiana negli Usa? 
Dei quasi 26 milioni di connazionali che dal 1876 al 1976 hanno lasciato l’Italia in cerca di fortuna all’estero, il 22% ha raggiunto gli Usa. Dal 1892 al 1924 per Ellis Island passarono più di 20 milioni di persone da tutto il mondo: dal 1896 al 1917 e poi nel 1920-21 gli italiani furono i più numerosi. Nel 1910 New York, prima città negli Stati Uniti per numero di abitanti e seconda al mondo dopo Londra, ospitava 4.766.883 residenti, di cui il 40% composto da stranieri tra i quali i più numerosi erano gli ebrei dell’Est Europa, poi gli italiani (340.795) e poi tedeschi e irlandesi. È questo il periodo del grande esodo italiano verso gli States: dei 5 milioni e 300 mila connazionali che tra il 1820 e il 1978 vi emigrano, più di 2 milioni lo fanno tra il 1900 e 1910, quasi 4 milioni tra il 1880 e il 1915 (il 50/60% dei quali poi rientrò in Italia nei primi 15 anni del secolo).

Chi erano questi italiani che emigravano in America?
Fino al 1900 la maggior parte di essi proveniva dal Nord Italia (soprattutto Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte) ma il grosso è stato poi costituito da meridionali, soprattutto campani, siciliani e calabresi. Diversi erano contadini destinati a lavorare nelle miniere: la legge americana consentiva loro di portarsi aiutanti con cui dividere il salario e molti minatori chiamarono a lavorare i loro figli di 8-12 anni, spesso clandestini. I lombardi venivano soprattutto per lavorare come minatori e manovali nel Missouri, nell’Illinois, nel Vermont, nel Michigan, nello Stato di Washington e poi in Iowa, Texas, New Mexico, Arizona e a San Francisco. Numerosi furono gli esuli politici piemontesi, lombardi e toscani che, dopo la Prima Guerra d’Indipendenza, parteciparono alla corsa all’oro lungo la Sierra Nevada, fondando diverse delle attuali ghost town intitolate a eroi del Risorgimento italiano. Dalla Calabria, tra il 1901 e il 1913 emigrarono più di 500.000 persone: tra di essi anche quadri politici e sindacali, che nelle grandi città diventarono protagonisti del movimento operaio statunitense e per questo schedati come “pericolosi sovversivi”. Nel 2000 circa 15,7 milioni di americani si sono dichiarati di origine italiana, + 7% rispetto al 1990: di questi il 57% vive nel Nord Est (700.000 nella sola Manhattan, il gruppo europeo più numeroso), il 14% nell’Ovest, il 16% nel Centro-Nord e il restante 13% nel Sud. La comunità italiana più numerosa è nello Stato di New York: nel 2000 c’erano 1.277.411 persone, 676.794 uomini e 600.617 donne, in età lavorativa (almeno 16 anni). Il 37,5 % di questi erano direttori, manager e liberi professionisti. Nell’ambito dei servizi operava il 14% del totale, con prevalenza nel settore alimentare. I settori della vendita, degli impieghi amministrativi, delle costruzioni e della manutenzione ne coinvolgevano poco più del 30%, mentre il 9,4 % era nei settori della produzione e dei trasporti. E’ dunque oggi una comunità dalle categorie professionali medio-alte, radicata tanto in ambiti innovativi (finanziario, tecnologico, informatico), che in settori più tradizionali (preparazione alimentare, commercio al dettaglio, trasporti). Tuttavia, all’inizio gli italiani erano soprattutto agricoltori e artigiani, molti analfabeti e ambulanti, che si trovarono a svolgere le professioni più diverse e a “costruire” l’America edificando strade e grattacieli e finendo spesso nelle maglie della malavita. Numerosi furono i ricongiungimenti familiari e i nuclei che si costituirono o ampliarono in terra americana dando vita alla seconda generazione. Quest’ultima e poi quelle successive videro una più accentuata acculturazione; crebbero personalità di spicco a livello sociale, politico, imprenditoriale. Si pensi ai poliziotti, agli attori, ai politici fino ad arrivare ad oggi quando l’Italia è sinonimo di moda ed eccellenza, la nostra lingua gode di grande popolarità e la società americana è sempre più attratta - per interesse, piacere o affari - dai rapporti con l’Italia. Le migrazioni più recenti hanno tra i loro protagonisti sia studenti universitari e post-universitari che giovani professionisti operanti per conto di filiali americane di aziende italiane.

La Chiesa ha avuto un ruolo fondamentale nell’aiutare i nostri connazionali. Ci può accennare qualcosa a questo proposito?
Fin dall’inizio, sacerdoti e religiosi (scalabriniani, francescani, salesiani, gesuiti ed altri) seguirono ed assistettero i migranti italiani. Mons. Scalabrini, in particolare, fondò la Congregazione dei Missionari di S. Carlo nel 1887 e, nel 1889, la Società San Raffaele composta interamente da laici. Egli si attivò concretamente in favore degli emigranti transoceanici per difenderli dagli sfruttamenti degli agenti d’emigrazione e di altri intermediari e per offrire loro il conforto della chiesa. La testimonianza della fede cattolica negli USA fu difficile perché avversata non solo dai protestanti ma anche dai cattolici del posto, impazienti nei confronti della religiosità popolare mediterranea e propensi a considerare pagane o superficiali le feste patronali. A New York nel XIX secolo gli italiani, non considerati adeguati a frequentare le chiese locali, furono autorizzati a riunirsi negli scantinati. Molti di loro, non accettando questa collocazione, scelsero la confessione protestante: nel 1918 nella sola New York furono 25.000.

Quale fu la risposta americana all’arrivo di questo grande numero di italiani?
Ben di rado i nostri connazionali che emigravano negli Stati Uniti videro realizzato l’American Dream: finirono con lo svolgere i lavori più umili come spazzini, operai, scaricatori portuali, minatori, fruttivendoli. Fra di essi c’erano anche molti volontari dell’esercito di Garibaldi. A cavallo tra i due secoli, gli emigranti italiani furono oggetto di campagne diffamatorie venendo rappresentati come antropologicamente portati a delinquere, una seria minaccia per l’ordine pubblico. Il pregiudizio era rivolto principalmente ai meridionali chiamati con i dispregiativi “dago” e “wop”; addirittura i siciliani furono definiti, nel 1911, not white. Questo razzismo montante sfociò in violenza. Un efferato attacco avvenne a New Orleans nel 1891, dove molti emigranti italiani avevano sostituito gli schiavi neri nel lavoro di coltivazione e raccolta del cotone: a fine ‘800 a New Orleans ce n’erano circa 30.000, siciliani per il 90%. Alcuni di essi vennero accusati dell’omicidio del capo della polizia della città (probabilmente ucciso dalla mafia o da avversari politici), ed il sindaco ordinò un rastrellamento presso la comunità italiana.

Vennero arrestate 250 persone, di queste 11 vennero processate per un delitto che non avevano commesso e, poiché innocenti, furono assolti in regolare giudizio: ciò provocò la collera degli autoctoni, in cerca di un pretesto per colpire gli italiani. Il giorno successivo, il 14 marzo 1891, una folla inferocita di 20.000 persone prese d’assalto la prigione, prelevò gli 11 italiani e li trucidò selvaggiamente a colpi d’arma da fuoco, impiccandoli e a bastonate. Seguì un momento di forte tensione tra i due governi, che si stemperò con la deplorazione ufficiale dell’accaduto da parte del Presidente Harrison ed un risarcimento di 25.000 $ ai familiari delle vittime. Sempre a fine ‘800 in Louisiana, a Tallulah, 5 emigranti italiani furono linciati a morte perché “rei” di essere troppo gentili con i neri. Nel 1913, a Calumet in Michigan, gli emigranti italiani nelle miniere di rame scioperarono perché da mesi non percepivano la paga. Nella notte di Natale la comunità italiana si riunì presso la sede della locale Società Mutua Beneficenza Italiana, detta Italian Hall. Una festa povera: nastrini colorati, qualche torta fatta in casa, pochi cesti di frutta secca, un’orchestrina alla buona.

I sicari dell’industriale del rame Charles Moyer, a capo della Western Federation of Miners, sprangarono le porte urlando “Al fuoco!”. Nel parapiglia che si scatenò morirono in 73, in gran parte bambini. Considerati da molti addirittura l’anello mancante tra uomini e scimmie, sfruttati e maltrattati, alcuni tra gli emigranti italiani entrarono nei circuiti della malavita, gettando così un indelebile marchio d’infamia sull’intera comunità. L’inizio del XX secolo segnò l’ascesa della mafia in America alla quale si oppose Joe Petrosino, il grande poliziotto italo-americano all’epoca a capo dell’Italian Legion, una squadra di poliziotti italo-americani creata proprio per contrastare l’ascesa della “Mano Nera”, così chiamata perché sui muri delle case degli emigranti italiani apparivano delle impronte di mani sporche di carbone. Petrosino intuì il collegamento mafioso tra New York e la Sicilia e, proprio per questo, tornò in Italia dove, il 12 marzo 1909, fu ucciso con tre colpi di pistola nel centro di Palermo.


di Umberto Mucci