La fiaba di Krugman sui Romney

martedì 10 luglio 2012


Uno scontro fra personalità e modi di pensare l’economia. Così si sta configurando la campagna elettorale americana, a cinque mesi esatti dal voto del prossimo 6 novembre. Mitt Romney, lo “squalo della finanza” che vuole togliere le tasse ai ricchi per farli diventare ancora più ricchi, contro Barack Obama “il new dealer” che vuol seguire le orme di Franklin Delano Roosevelt per mettere sotto controllo il liberismo “selvaggio”. Queste macchiette sono ormai entrate nel lessico comune. Ma analoghe descrizioni stereotipate le troviamo anche fra i guru dell’economia. Uno su tutti: Paul Krugman, ovviamente. Che predica dal suo blog e dalle colonne del New York Times, tutti i giorni, insultando i Paesi liberisti (come l’Estonia, nonostante i suoi ottimi risultati nella ripresa dalla crisi del 2009), bacchettando chi, in Europa, vuole l’austerity (nonostante la crisi sia causata dall’espansione del debito pubblico) e, soprattutto, predicando contro le “minacce” che incombono sugli Stati Uniti: i Tea Party, i conservatori, Mitt Romney. Il candidato alla presidenza degli Usa, è oggetto dell’ultima predica di Krugman. Che espone il suo peccato originale: quello di aver lavorato nella finanza. E da quando è un crimine?

Krugman, di fatto, ritiene che l’economia “finanziaria” sia male e l’economia “reale” sia bene. Non solo hanno caratteristiche differenti, ma anche diversi valori morali. Per far comprendere al lettore il vero discrimine, Krugman riassume le storie parallele di padre (George) e figlio (Mitt) Romney. «Che cosa faceva per vivere George Romney? – si chiede l’economista premio Nobel – Condusse un’azienda automobilistica, l’American Motors. E la condusse molto bene: ai tempi in cui i Tre Grandi (dell’industria dell’auto, ndr) erano ancora fissati con le grandi auto e ignoravano la crescente tendenza delle importazioni, Romney trasformò con successo la sua produzione concentrandosi sulle utilitarie, cosa che rilanciò l’azienda e diede lavoro a molti americani». Invece il figlio: «Ha fatto molti più soldi nella Bain Capital. Contrariamente al padre, non ha prodotto beni che servivano ai consumatori, ma ha fatto una fortuna con l’ingegneria finanziaria, che in molti casi sembra aver bruciato molti posti di lavoro e in altri casi ha portato molte aziende alla bancarotta».

Sembra difficile che un economista professionista (e premio Nobel) possa esprimersi in termini così populisti, dimenticando che, senza la finanza “virtuale”, le compagnie “reali” non avrebbero i soldi neppure per costruire una singola automobile. E che le aziende “reali” possono fallire e bruciare migliaia di posti di lavoro, nonostante l’aiuto ricevuto dal governo, con i soldi dei contribuenti. Ma tant’è: questa è la visione del mondo e dell’economia che ha la sinistra americana (e sia la destra che la sinistra italiane). Un mondo fatto di buoni produttori in tuta da lavoro, in lotta contro cattivi finanzieri in giacca e cravatta. Vediamo chi vincerà nelle prossime elezioni. Ben che vada, vincerà ancora Barack Obama, consigliato da Paul Krugman, sotto la cui amministrazione, in quattro anni, la disoccupazione si ostina ad essere (come dimostra l’ultimo rapporto) pari o superiore all’8%.


di Stefano Magni