Israele, capro espiatorio di Assad

mercoledì 4 luglio 2012


Dare la colpa a Israele per smorzare la tensione con la Turchia. È questa la semplice tattica di comunicazione adottata da Bashar al Assad nella sua prima intervista rilasciata a un giornale turco, il “Cumhuriyet”, dopo l’abbattimento di un F–4 Phantom di Ankara.

Assad corre ai ripari dopo una settimana di crescente tensione sulla frontiera turco–siriana. Benché non vi siano segni premonitori di un conflitto, la Turchia ha rafforzato il confine. 

Nella sua intervista, il dittatore di Damasco spiega che il bombardiere turco in ricognizione è stato abbattuto nello spazio aereo siriano. E non solo perché aveva violato la sovranità del Paese, ma anche (e soprattutto) perché avrebbe utilizzato una rotta solitamente impiegata dagli aerei con la stella di Davide. Siria e Israele sono ancora tecnicamente in guerra. Incursioni aeree israeliane sono avvenute nel 2003, nel 2006 (durante la Seconda Guerra in Libano) e nel 2007 (distruzione di un sospetto impianto nucleare in Siria). Quindi, per precauzione, gli attenti artiglieri della contraerea siriana avrebbero sparato subito, prima ancora di accertare la nazionalità di appartenenza dell’intruso. Secondo Bashar al Assad, infatti, la batteria della contraerea protagonista dell’azione non era dotata di radar. E dunque era impossibilitata ad accertare la natura ostile o amica dell’aereo. Quest’ultima spiegazione del dittatore sembra molto poco plausibile: se già non è facile abbattere un F–4 Phantom (in volo radente e a lanciato a velocità supersonica) con un missile o un cannone anti–aereo a guida elettronica, colpirlo dopo averlo puntato a vista è una missione quasi impossibile. Ma non importa la veridicità della spiegazione. Importa, piuttosto, il suo significato politico. Assad vuole comunicare rammarico al lettore turco, per aver commesso un errore tragico. E gli vuole dire, soprattutto, che la sua tensione è causata da Gerusalemme, non da Ankara. In questo modo può ottenere ascolto dall’opinione pubblica turca, quantomeno ostile allo Stato ebraico.

Quel che Bashar al Assad teme è un riavvicinamento fra Turchia e Israele, tradizionali alleati nei decenni passati e allontanatisi solo negli ultimi anni del governo Erdogan. La crisi siriana pare aver posto fine al periodo di massima tensione fra Gerusalemme e Ankara, arrivato allo zenit dopo la vicenda della Freedom Flotilla, salpata dalla Turchia intercettata dagli israeliani nel maggio del 2010 prima che raggiungesse Gaza. Quello era lo scenario favorevole alla Siria di Assad: quando Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e la Turchia erano tutti rivolti contro Israele. Da quando è scoppiata la ribellione in casa sua, nel marzo del 2011, Assad ha invece gradualmente perso tutta questa costellazione di alleati: ora è quasi in guerra con la Turchia, ha perso il suo contatto con Hamas (che solidarizza sempre più palesemente con gli insorti) e gli è rimasto solo Hezbollah, che comunque è meno attivo del solito. Il duplice tentativo di forzare la frontiera israeliana sul Golan (il 15 maggio e il 5 giugno 2011) con masse di palestinesi disarmati, non ha prodotto alcuna “terza Intifadah”, come invece sperava Damasco, principale sostenitore dell’iniziativa. Il regime siriano, dunque, deve cercare a tutti i costi un nuovo pretesto.


di Stefano Magni