La Cina mente sui rifugiati di Pyongyang

mercoledì 27 giugno 2012


È una fuga disperata e le cui conseguenze possono rivelarsi ancora più terribili. Migliaia di nordcoreani ogni anno cercano di fuggire dal regime di Pyongyang attraversando i confini a Nord del Paese: da una parte la Russia, con il lembo di terra a sud ovest di Vladivostok, dall’altra la Cina, dove si calcolano tra i 20mila e i 30mila rifugiati. Che poi in realtà rifugiati non sono, dal momento che Pechino non li riconosce tali, per quanto lo Stato cinese sia tra i firmatari della convenzione delle Nazioni Unite che regola la materia dal 1951. E che consente alla Unhcr, l’agenzia per i rifugiati dell’Onu, di operare nelle zone interessate per garantire la tutela dei diritti umani: i rappresentanti della Unhcr possono così agire in Russia (che spesso finisce sotto la lente d’ingrandimento della comunità internazionale), ma non in Cina. 

Sarebbero in media seimila i nordcoreani rispediti al di là del confine, dove ad attenderli c’è la punizione del regime comunista: dai campi di lavoro alle torture fino alle esecuzioni. Secondo la legge in vigore, un dissidente nordcoreano in Cina è giudicato come un immigrato illegale per motivi economici ed è dunque costretto a ritornare dal luogo di provenienza. La Cina, nelle intenzioni dei fuggitivi, è il porto dal quale imbarcarsi vero la Corea del Sud: un’impresa quasi impossibile. E spesso, chi non riesce a raggiungere la meta tanto desiderata, cerca ospitalità presso le comunità coreane presenti sul territorio cinese con il pericolo di essere rintracciato più facilmente, per quindi tentare il gesto estremo chiedendo asilo politico presso il consolato sudcoreano di Shenyang, capitale della provincia del Liaoning, che confina con la Corea del Nord. Le autorità locali nel corso degli anni hanno aumentato i controlli attorno alla sede diplomatica. 

La condizione femminile è tragica. Uno studio elaborato dalla commissione delle Nazioni Unite sui diritti umanitari riporta che il 70% o addirittura l’80% delle donne è merce di scambio in una serie di traffici umani: schiave del sesso che subiscono violenze inizialmente nei centri più limitrofi al confine con la Corea del Nord e in seguito sono costrette a muoversi di località in località, spesso affidate a clan cinesi con discendenze coreane e “rivendute” almeno tre o quattro volte. Al loro rimpatrio, le misure adottate da Pyongyang prevedono l’allontanamento se non l’uccisione dei figli nati dai rapporti con i clienti cinesi nell’intento di mantenere puro il sangue nordcoreano. 

La scorsa primavera Pechino ha garantito maggiore collaborazione con le Nazioni Unite e gli altri organismi internazionali, dopo che tra febbraio e marzo diversi attivisti si erano mossi per sollevare la questione sfilando per le strade della capitale, così come anche in diverse città di Russia, Giappone, Spagna e Germania per la campagna di sensibilizzazione “Save my Friend”, lanciata dalla piattaforma Change.org, ma nello stesso periodo la Cina riconsegnava alla Corea altri transfughi detenuti a Shenyang e Changchun mentre da inizio anno il giro di vite lungo il confine è stato ulteriormente inasprito.


di Dario Mazzocchi