G20: l'Europa salvata dalle ex colonie

mercoledì 20 giugno 2012


La crisi dell’eurozona è al centro dell’attenzione del vertice dei G–20 (le 20 potenze economiche mondiali), riunitosi nei due giorni scorsi a Los Cabos, Messico. Il rischio di bancarotta che tuttora riguarda due Paesi mediterranei quali la Grecia e la Spagna (con il Portogallo e l’Italia prossimi nella lista), può generare un effetto di contagio molto più ampio rispetto all’eurozona. Gli Stati Uniti, alle prese con un rallentamento della crescita del loro Pil (1,7%) e un tasso di disoccupazione da record (9%), si considerano i più esposti. Ma anche le economie emergenti di Cina e India, fortemente interconnesse ai mercati europei, possono subire ripercussioni gravi. Per tentare di ridurre il rischio, una prima decisione presa dal G–20 consiste nel rafforzamento del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Le economie emergenti di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa (Brics) corrono in soccorso della vecchia Europa: ciascuna delle cinque potenze contribuirà con un fondo di 10 miliardi di dollari, per permettere al Fmi interventi più ampi nelle aree colpite dalla crisi. La Cina, inoltre, contribuirà con ulteriori 43 miliardi di dollari al fondo di intervento anti–crisi del Fmi, il cui ammontare complessivo è ormai pari a 456 miliardi di dollari.

Ovviamente non stiamo parlando di attività filantropiche, ma di un “do ut des”: i Brics chiedono infatti riforme strutturali del Fmi che permettano loro di avere un peso decisionale maggiore. Indirettamente, l’azione di soccorso dei Brics ha anche ricadute sulla diplomazia internazionale. La Russia e la Cina avranno un peso specifico maggiore, quando si opporranno alle politiche occidentali, ad esempio sul programma nucleare iraniano (per cui i negoziati sono ripresi proprio ieri), sulla crisi in Siria, sullo scudo anti–missile in Europa (a cui si oppone il Cremlino). Per Paesi che erano ex colonie europee fino a mezzo secolo fa (Sud Africa, India e, in un certo senso, anche la Cina), per chi ha perso la Guerra Fredda appena vent’anni fa (Russia) e chi era considerato Terzo Mondo sino all’altro ieri (Brasile e ancora l’India), si tratta di una rivincita storica particolarmente gustosa.

L’Europa ne esce decisamente umiliata, nonostante la difesa d’ufficio condotta da José Manuel Barroso, presidente della Commissione. Pressato dalle critiche americane, ha risposto a un giornalista canadese che: «La crisi non è nata in Europa (…) questa crisi ha origine in Nord America e gran parte del nostro settore finanziario è stato contaminato da pratiche non ortodosse di alcuni ambienti del mercato finanziario». Anche nel G–20, però, non è stato toccato il tema della crisi dello stato sociale europeo. Anzi: dal G–20 emerge l’intenzione di espandere la spesa pubblica per creare nuovi posti di lavoro. Eppure, la “formula greca per il declino economico”, come la chiama Amy Payne, della Heritage Foundation, è una somma di: rigidità del mercato del lavoro, iper–regolamentazione, tasse alte, burocrazia inefficiente e corrotta e un debito pubblico insostenibile. Sono tutti gli effetti collaterali, pressoché inevitabili, dello stato sociale. La cui espansione, nell’Europa degli anni ’50 e ’60, ha contribuito al crollo degli imperi coloniali. La crisi dello stato sociale moltiplica gli effetti degli shock economici. E ora finirà per rendere il Vecchio Continente dipendente dalle sue ex colonie.


di Stefano Magni